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Guido Barbujani, tutto è provvisorio tranne la solitudine

All’inizio sembrerebbe una storia da ridere, quella raccontata da Guido Barbujani nel romanzo Tutto il resto è provvisorio (Bompiani): ambientata in un sonnolento nord-est italiano (Padova e dintorni) in cui si muovono vite estenuate dalla mediocrità, prevedibili; vocate alla sopravvivenza nonostante il benessere, anzi, proprio grazie ad un benessere che non pretende grandi guizzi di vita. La levità del racconto di Bujani, la sua scrittura piana, colloquiale, una lingua che privilegia ‘il parlato’ descrivono, invece, una drammaticità tutta contenuta in un evolversi di fatti e situazioni che giungono anch’essi come fossero cose ‘normali’.

Il protagonista è Gianni Schuft (“Avevo meno di cinquant’anni, un bell’aspetto, un negozio, un buon reddito, belle macchine che cambiavo spesso, una bella moglie. Non sapevo di essere un vigliacco.”) che, già ricco di famiglia, fa soldi vendendo a prezzi esorbitanti pezzi di antiquariato o presunto tale. Si avvale della fedele collaborazione di Pacia, Frigo e Biasin. I primi due battono le campagne a cercare mobilia, lampadari dismessi, chincaglieria, vecchi giocattoli che, poi, Biasin (geometra col talento del restauro) rende pezzi unici e costosi.

La storia si complica quando la ditta decide di allargare il proprio mercato in Slovenia. Con funzioni di interprete, entra in scena la giovane violoncellista Ilirjana. Schuft si innamora di lei, lascia la moglie e soprattutto la inetta esistenza condotta fino ad allora. L’amore lo innamora della vita. Ma, per la prima volta, sperimenta anche la sofferenza e come un sentimento possa trasformarsi in tormento, in annientamento di sé. Fino al punto di commettere un omicidio, diventare latitante, costituirsi dai Carabinieri. E ritrovarsi in carcere, da dove racconta la sua storia profondamente umana; verrebbe da dire, così ‘normale’. Perché a chiunque può accadere che “della vita resta solo la solitudine, solo quella, mentre il resto è tutto provvisorio”.
 
***
Avevo un negozio, un buon reddito, una moglie. La tradivo con moderazione, come tanti, evadevo il fisco serenamente, come tutti. Anche a me certe volte, magari proprio a primavera, quando le pozzanghere si asciugavano e il vento portava il profumo dei colli, quando sarebbe stato logico pensare che non mi mancava niente per essere contento, invece anche a me, non so perché, certe volte, veniva un’ansia, una smania: mollare tutto, cambiare mestiere moglie amici, mettermi in viaggio: cambiare vita. Passavo la serata a guardare nel vuoto, facendo finta di lavorare, e intanto pensavo, immaginavo… Durava un po’, poi mi calmavo. Sono sempre stato vigliacco; adeso lo so, prima no. Per i primi cinquant’anni della mia vita ho evitato metodicamente le soluzioni drastiche, e qualcuno magari dirà che ho semplicemente evitato le soluzioni. Vedevo i miei amici affannarsi: da ragazzi per la laurea, poi per il posto di lavoro, poi per scansare il matrimonio, infine per sopravvivere al matrimonio. Si lamentavano: per telefono, dall’ufficio; e soprattutto la sera all’uscita dal cinema, allontanandosi dal gruppo con la scusa di una sigaretta, e poi troncando il discorso quando la moglie, sbracciandosi, sollecitava il ritorno a casa. Si lamentavano e io stavo ad ascoltarli perché ascoltare gli altri in difficoltà non mi annoiava. Anzi, più li ascoltavo e più mi dicevo, guarda, sei stato proprio bravo, guarda che pace hai intorno. Il metodo, il mio metodo, era semplice: non fare, non agire; lasciare che le cose andassero per conto loro. Era straordinariamente semplice, ma a quanto pare ci riuscivo solo io. Qualcuno mi ha detto bella forza, i tuoi sono pieni di soldi: e i miei, di soldi, ne avevano. Io però non sono del tutto d’accordo. Un po’ è anche vero, i soldi aiutano. Ma quanti se ne sono visti perdere la farmacia di famiglia, lo studio legale ben avviato? Si sono illusi, si sono presi in giro da soli, hanno fatto il passo più lungo della gamba: o hanno buttato via i quattrini dietro a qualche vizio, a qualche sottana, a qualche puttana.
Io ho evitato questi errori per anni, finché li ho commessi tutti insieme nel giro di un mese. Avevo due rappresentanti, due intermediari che conoscevano bene la zona prealpina. Battevano la pedemontana casa per casa, aspettavano che i figli andassero al lavoro per parlare coi vecchi, li convincevano a mollare per pochi soldi la credenza, la tinozza, un cavallo a dondolo dimenticato in soffitta. Anche un rastrello poteva andar bene, anche una vecchia culla. Scaricati dai camion passavano nelle mani di un mio dipendente, un geometra, un certo Biasin, che aveva le sue idee sull’arredamento e un talento raro per il restauro. Sverniciava, stuccava, non so neanch’io cosa facesse. Alla fine rivendevamo il pezzo a dieci volte quello che l’avevamo pagato, e ci andava bene, ormai avevo una clientela affezionata che mi veniva a trovare da Torino, da Firenze. Abbiamo cominciato negli anni novanta, quando farsi conoscere era più difficile di adesso; bisognava girare per le fiere, mettere inserzioni sui giornali, telefonare, farsi dare tanti numeri di telefono. Ma c’era molto denaro in circolo, la gente non sapeva come spenderlo e io gliene davo l’occasione. Certe volte ero così contento che non riuscivo a star fermo e allora scendevo nell’antro di Biasin – il seminterrato si chiamava semplicemente l’antro, e lui ci passava dodici ore al giorno – per far commenti sull’ultima vendita. Anche lui lo lasciavo fare, non c’era bisogno di dargli ordini e nemmeno consigli. Al massimo, la sera, se all’ora di chiusura aveva finito anche lui (capitava di rado, arrivava tardi e se ne andava tardissimo), risalivamo via Roma fino alle piazze e gli offrivo lo spritz.
 
[da Tutto il resto è provvisorio di Guido Barbujani, Bompiani, 2018]

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