Fuori fa un freddo cane. Di quello che fa cascare il naso se non lo proteggi bene. Dentro, un caldo che pare d’essere davanti a un fon. E i ragazzi che ballano sul palco non riescono a nasconderlo: hanno le gote rosse e la fronte fradicia. La sala dipinta di azzurrino è zeppa di seggiole bianche ordinate. Ad occuparle c’è un’umanità di facce accaldate e sorridenti. Battono le mani come se non potessero farne a meno, in una specie di ritmo genetico incontrollabile e gioioso del quale solo la gente dell’Est pare esserne dotata. Quando l’orchestrina attacca Hatikvah, l’inno di Israele, la musica cambia tempo, e anche la fisarmonica che per indole non è solenne come un violino, assume una cadenza seria, formale quasi ufficiale. Tutti in piedi. Coi lucciconi che sembrano dare un velo di coppale lucida ai ricordi opachi e alle speranze appannate. Benvenuti a Birobidjan. “Regione autonoma ebraica”. Parte più orientale della Russia al confine con la Cina, a quasi 8 ore di volo da Mosca. Per i più è stata solo la fermata della Trans-siberiana che serviva la migliore zuppa di barbabietole. Per i tanti ebrei che la scelsero, una specie di Gerusalemme surgelata. Un progetto della seconda metà degli anni ’20. Quando gli ebrei russi, devastati dalla miseria e dai pogrom, tentano la strada della Palestina. Il governo sovietico allora, per frenare la fuga di lavoro qualificato e l’appoggio politico ebraico prova a creare una Terra Promessa prima in Crimea con risultati inesistenti e poi nella regione di Birobidjan in Siberia, dove il deserto ghiaccio e la desolazione sarebbero stati di sicuro meno ostili degli attacchi antisemiti. Nel marzo del ’28 l’area diventa “Territorio di colonizzazione ebraica” e poi “Distretto nazionale”. Con la benedizione di Stalin e di 35000 nuovi arrivi di fede mosaica. Un nuovo mondo, non certo da educande, che avrebbe condiviso quell’inferno congelato coi russi, gli ucraini, e i cosacchi. Nasce così il progetto della Sion rossa in alternativa all’emigrazione borghese in Palestina. La lingua ufficiale sarebbe stata lo Yiddish. Oggi gli ebrei rappresentano più o meno il 5% della popolazione, di gran lunga assottigliata. E quando è inverno ed è festa si ritrovano in quel che resta del Teatro Habima. Cantano, ballano ed escono con gli occhi rossi per la commozione.