Chi ama Firenze non può fare a meno di conoscerlo. Ottone Rosai, il pittore fiorentino che ritrasse durante il Novecento panorami cittadini, scorci di via de’ Bardi, della Chiesa di Santa Maria del Carmine o la facciata di Santo Spirito, mostrandone l’essenza, interpretandone l’eleganza, fotografando un’epoca e i personaggi che la caratterizzarono. Quella schiettezza che si manifesta nelle sue opere attraverso scelte cromatiche luminose e nitidezza di forme, si ritrova altrettanto intensa nei suoi scritti, raccolti da Giuseppe Nicoletti nel volume “Scritti dispersi” (Polistampa, 2018). Brani autobiografici o articoli apparsi su Il Selvaggio, la rivista di Mino Maccari, o sull’Universale o su altre testate, che riportano stralci della quotidianità dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza di Rosai, così come del suo pensiero sull’attualità politica o sulla concezione dell’arte.
Come spiega Nicoletti, i pezzi redatti da Rosai sono raccolti mantenendo “per sistema un rigoroso criterio conservativo rispetto agli originali a stampa, cosicché il nostro intervento è consistito unicamente nel contrassegnare in modo uniforme le testate di periodici e riviste citate” (p.17) e rappresentano oltretutto un patrimonio di testimonianze sui costumi della nostra società nel primo del Novecento. Il taglio dei capelli, il primo vestito con i pantaloni lunghi, ma anche la figura dell’artista che va formandosi e le considerazioni sulle controverse vicende del nostro Paese si uniscono qui molti altri episodi di vita vissuta e costituiscono “una preziosa documentazione di prima mano per comprendere più a fondo mentalità, spunti ideali e convincimenti di un artista la cui statura e la cui rappresentatività nell’ambito delle arti figurative del nostro Novecento difficilmente potranno essere ormai messe in discussione” (p. 7). Da alcuni scritti riportati nel volume, risultano tuttavia oltremodo evidenti anche gli effetti dell’influenza che l’ideologia fascista inevitabilmente esercitava sui giovani dell’epoca e i brani risalenti all’immediato primo dopoguerra “risultano estremamente rappresentativi (nel suo caso dalla parte del reducismo radicale e dei nascenti fasci di combattimento fondati da Mussolini nel ’19) del clima di forte contrapposizione ideologica e classista che appunto dette origine in Italia al cosiddetto biennio rosso (1919-20) e che culminò al nord, nel settembre del ’20, con l’occupazione delle fabbriche” (pp.8-9).
Un volume ricco di fascino, soprattutto per l’emozione di ascoltare nelle parole di Rosai il resoconto della propria vita e della propria immagine di artista, una volta tanto non mediata da riletture critiche o dall’affettuoso ricordo degli amici, ma riportata al pubblico in modo autentico, secondo le parole dell’autore stesso.