Nell’estate tra la fine della terza media e l’inizio della quarta ginnasio m’innamorai di Hemingway. Mio padre, che trovava pesanti e prolissi i miei temi, mi fece dono dei Quarantanove racconti, convinto che fosse un ottimo antidoto contro l’inutile verbosità. A catturarmi, però, non furono né l’essenzialità né la chiarezza della scrittura, così povera di aggettivi e di commenti e così ricca, invece, di dialoghi e di espressioni colloquiali. Piuttosto, furono le storie, i luoghi, i personaggi e, più di ogni altra cosa, il coraggio col quale questi ultimi affrontavano la vita e andavano incontro alla sconfitta. Dopo vennero Addio alle armi, Per chi suona la campana, Fiesta, Morte nel pomeriggio, Il vecchio e il mare. La mia ammirazione per lo scrittore americano crebbe ulteriormente e quando, qualche anno dopo, scoprii che anche Vittorini e Pavese la pensavano come me (la presunzione dell’adolescente), mi convinsi di essere nel giusto: Hemingway era il più grande di tutti.
Oggi questa affermazione non la rifarei. Prima di tutto, perché nel frattempo le pagine da me lette sono diventate decine di migliaia, con la conseguenza che ho avuto modo di conoscere altri straordinari – talora inarrivabili – autori, che hanno un po’ relegato nell’ombra il buon Hemingway. Poi, perché con gli anni a mutare non sono soltanto i gusti, ma anche il giudizio che noi diamo sulle persone, sulle cose, sui fatti, sui libri. Infine, perché mi sono convinto che se c’è un ambito nel quale siamo tutti infedeli (pur non ammettendolo sempre apertamente), questo è proprio l’ambito artistico. Io, infatti, non saprei dire se amo e ammiro (due verbi che non sempre, giova sottolinearlo, vanno necessariamente d’accordo) di più Flaubert, Tolstoj, Dostoevskij, come non saprei scegliere tra Bach, Mozart, Chopin, o tra Baker, Davis, Evans, o, ancora, tra Tiziano, Vermeer, Velazquez. Nella mia infedeltà di fondo, a ciascuno di loro resto fedele (e confesso che i nomi fatti corrispondono a una piccola parte dei miei amori).
Eppure, continua a riempirmi di gioia, quasi a commuovermi, la vista dei ragazzi che a scuola, durante l’intervallo, o davanti alla stazione, mentre aspettano il pullman, leggono un libro, splendidamente indifferenti alle voci e ai gesti di chi li circonda, al messaggio che arriva sul cellulare o alle prime gocce di pioggia che hanno preso a cadere. Convinti che l’opera che stanno sfogliando costituisca l’ennesimo capolavoro del più grande fra gli scrittori, si lasciano avvolgere dalle sensazioni che il testo procura loro e condurre a scoprire sconosciute dimensioni del mondo. Così facendo, gettano ponti tra la propria esperienza di vita e quella degli altri uomini (reali o immaginari), si abituano a guardare alle delusioni e alle sofferenze come a qualcosa che li accomuna (non li distingue) alle altre creature, si rendono conto che non è né giusto né bello credere che si possa raggiungere un compromesso su ogni cosa. Se tutto ciò accade, è perché i ragazzi sono intimamente persuasi che il grande amore è incapace di mentirci e di prendersi gioco di noi: l’esclusività di quella passione – letteraria – diviene la garanzia della sua veridicità. E allora ben venga anche qualche valutazione errata intorno alla grandezza di uno scrittore: è l’inevitabile prezzo da pagare a un’ingenua e indomita fedeltà.