È accaduto che nella traccia dell’analisi del testo per gli esami di maturità 2017, si indicassero alcuni versi (per l’esattezza dei versicoli) di un tale Giorgio Caproni. E così l’Italia intera (o quasi) ha scoperto improvvisamente questo poeta che, in realtà, è una delle voci più significative della poesia del nostro Novecento. Bene fanno gli esperti del ministero dell’istruzione a proporre autori la cui notorietà non va oltre la nicchia degli studiosi e degli appassionati di letteratura. Ma sembra pure che la scuola voglia, così, autoassolversi dal fatto che gli studenti arrivino alla maturità senza conoscere pressoché niente della letteratura novecentesca; perché – si è soliti dire – manca il tempo per poterne parlare in classe. Eppure Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990) è un poeta imprescindibile, per quanto anche la critica abbia impiegato forse troppo a riconoscerlo. Poesia, la sua, che si distingue per nitore, asciuttezza, cantabilità, perizia metrico-stilistica. Il poeta livornese posa uno sguardo trasognato sulla realtà che – come osserva Pier Vincenzo Mengaldo – ne fa «un poeta potentemente onirico, o meglio trasferisce incessantemente le sue esperienze oniriche, o le loro essenze, nelle ‘simulazioni di realtà’». Soprattutto nell’ultima fase della sua produzione poetica, Caproni si misura con un linguaggio che, secondo lui, è inesorabilmente inadeguato a rappresentare la realtà. Tanto da dire: «Buttate pure via /ogni opera in versi o in prosa. / Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa».
Perch’io
… perch'io, che nella notte abito solo,
anch'io di notte, strusciando un cerino
sul muro, accendo cauto una candela
bianca nella mia mente – apro una vela
timida nella tenebra, e il pennino
strusciando che mi scricchiola, anch'io scrivo
e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto
che mi bagna la mente…
[da ”Il seme del piangere”, in Giorgio Caproni, L’opera in versi, Mondadori, 1999]