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È doloroso attraversare il fragile ponte di Markus Zusak

Il suo libro “Storia di una ladra di libri” ha avuto un successo strepitoso, otto milioni di copie vendute tradotte in quaranta lingue, un film tratto dal libro e diretto da Brian Percival. Solitamente quando un autore fa un colpaccio di questo tipo non aspetta certo dodici anni a sfornare un secondo, e un terzo, quarto, quinto libro. Cosa che, invece, ha fatto Markus Zusak per scrivere e riscrivere quello che riteneva essere il romanzo “necessario”, una storia che da sempre lui sentiva di dover raccontare. Ecco dunque “Il ponte di argilla”, pubblicato in Italia da Frassinelli. Cinquecento pagine lungo le quali scorre una vicenda famigliare intensa e dolorosa. Quella di cinque fratelli: Matthew, Rory, Henry, Clay e Tommy. I fratelli Dunbar, che quando la madre muore vengono abbandonati anche dal padre, non a caso chiamato l’Assassino (“Eravamo rimasti in cinque, in quella casa. Sognavamo, nelle nostre stanze. E dormivamo. Eravamo ragazzi, ma ciascuno di noi era un miracolo. Perché eravamo sdraiati sui nostri letti, vivi, respiravamo… E quella era stata la notte in cui ci aveva uccisi. Ci aveva assassinati, tutti quanti”.
Il padre un giorno tornerà a casa e sarà Clay a sobbarcarsi la fatica morale e psicologica di quel ritorno (gli altri fratelli si rifiutano). Lui del resto sa esattamente cosa e come è successo. Ha dunque la responsabilità di un tentativo, di una speranza: provare a costruire un ponte – fragile come l’argilla – per ricongiungere passato a futuro. Percorrendo tutto il dolore e poter dire che “era andata così. E tutto questo aveva portato a quel ponte”.
 
***
 
Se prima del principio (sulla carta, almeno) c’erano una macchina da scrivere, un cane e un serpente, al principio – undici anni prima – c’erano un assassino, un mulo e Clay. Anche al principio, tuttavia, c’è qualcuno che deve partire per primo, e quel giorno poteva essere solo l’Assassino. In fondo, fu lui a mettere in moto tutto quanto, e a costringerci a guardarci indietro. E lo fece semplicemente arrivando. Alle sei in punto.
Ed era giusto così. Assolutamente coerente: era un’altra torrida serata di febbraio; il cemento era cotto dal sole, ancora alto nel cielo, doloroso. Era un caldo da conservare e a cui affidarsi, e che forse lo stava tenendo sotto scacco. Mai al mondo si era visto un assassino così patetico.
Un metro e settantasette, statura media.
Settantacinque chili, normopeso.
Ma non fraintendetemi: era una rovina d’uomo dentro a un completo. La postura incurvata, l’espressione distrutta. Si appoggiava all’aria intorno a lui quasi stesse aspettando che gli infliggesse il colpo mortale, ma non lo faceva; non lo fece quel giorno, perché quello non era il momento per ricevere favori, da parte di un assassino.
No, quel giorno lui lo sentiva.
Quasi fosse un odore.
Era immortale.
Il che riassumeva più o meno l’intera situazione.
Credere che l’Assassino non potesse essere ucciso, proprio quando sarebbe stato meglio da morto.
Per un istante infinito, che durò dieci minuti almeno, rimase all’imbocco di Archer Street, sollevato all’idea di avercela fatta e terrorizzato al pensiero di essere lì. La strada in sé non sembrava badare alla sua presenza; soffiava una brezza soffocante, ma indifferente, il cui odore di fumo pareva quasi solido. Le auto, più che parcheggiate, erano state spente come mozziconi, e i fili della corrente si abbassavano sotto il peso dei piccioni muti e nervosi. Intorno, un’intera città saltò su e disse a gran voce: «Bentornato, Assassino».
E quella voce era così affettuosa, accanto a lui.
«Ti vedo in difficoltà… In effetti, ‘in difficoltà’ non rende minimamente l’idea: sei in guai grossi.»
E lui lo sapeva.
E poco dopo il calore si fece più vicino.
Archer Street si mise all’opera, per dimostrarsi all’altezza del compito, praticamente strofinando le mani, e l’Assassino prese fuoco. Lo sentì crescere, da qualche parte sotto la giacca, e con esso giunsero anche le domande.
Era in grado di andare avanti, e di finire quello che aveva cominciato?
Era davvero capace di andare fino in fondo?
Per un ultimo istante si concesse il lusso – l’eccitazione – di rimanere immobile; poi deglutì, si massaggiò i capelli divisi in ciocche appuntite e, con cupa determinazione, si diresse al civico 18.
Un uomo con un vestito in fiamme.
Naturalmente, quel giorno stava andando da cinque fratelli.
Da noi. I ragazzi Dunbar.
Dal più vecchio al più giovane: io, Rory, Henry, Clayton, Thomas.
E dopo quel giorno non saremmo mai più stati gli stessi.
 
[da Il ponte di argilla di Markus Zusak, traduzione di Chiara Brovelli, Frassinelli, 2018]

 

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