La testimonianza letteraria di Dina Ferri (per ciò che nel suo piccolo comunque rappresenta), ai fini della critica è rimasta in una sorta di limbo.
Un po’ per la sua frammentarietà e incompiutezza (in definitiva la sua opera tramandata non è che la parte di un diario su cui, peraltro, non sappiamo quanto la curatela abbia inciso – e se ciò è accaduto, a mio avviso, ha influito negativamente); un po’ perché, dopo gli esordi, non ha più trovato l’interesse della cultura ufficiale, né è stato possibile ascrivere l’esperienza letteraria di Dina a quella di una poetessa a carattere popolare, come ad esempio nel caso di Beatrice degli Ontani cui, talvolta ed erroneamente, la Ferri viene assimilata (ambedue vennero definite poetesse-pastore).
In ragione di ciò e per capire i motivi di questo limbo, bisognerebbe, prima di tutto, introdurre categorie più di tipo socio-antropologico che letterario. Lo fece molto bene (forse alcuni di voi lo ricorderanno) Fabio Mugnaini nel convegno svoltosi qui a Chiusdino nell’ottobre del 1998, quando egli evidenziò come il percorso di Dina sia stato interessante innanzitutto dal punto di vista sociologico, poiché si assisté alla nascita di una scrittrice per cooptazione. Lo status di poetessa le fu infatti riconosciuto dall’ambiente culturale e aristocratico senese (Lusini e Misciattelli) in un’aura di illuminato paternalismo che – intendiamoci, in tutta buona fede – voleva anche ribadire come l’intellettuale avesse la capacità maieutica di scoprire il diamante in mezzo alla ghiaia.
E’ così, dunque, che una contadina (una donna contadina!; non passi inosservato questo aspetto di “genere”) diviene letterata, compiendo uno smisurato salto sociale. E ad un certo punto Dina stessa ha paura di questa emancipazione, arrivando quasi a colpevolizzarsi per aver tradito un destino che, invece, sembrava inequivocabilmente segnato dalla sua condizione di origine.
Del resto già l’azione dello scrivere era un distinguersi dalle proprie origini (quelle contadine) dove non si era soliti scriveva, ma, eventualmente, narrare oralmente.
Dina – osservava ancora Mugnaini – è una esponente del ceto subalterno, però sono altri a identificarne il talento e a legittimarne la produzione poetica. Perciò ella si esprime in un lessico che non è quello di provenienza, ma quello che l’accoglie e al quale piace ri-conoscerla come “poetessa pastora” (e perché – mi chiedo – non riconoscerla semplicemente come “poetessa”?)[…]
Continua sul “blog di oliveto”
Leggi anche:
Valdarbia, terra grigia lisciata dal vento
Il racconto del Palio nelle pagine della letteratura
Camus avrebbe voluto morire a Siena
“La città dove il mio cuore si compiace veramente”. E’ scomparso lo scrittore Josè Saramago, un
innamorato di Siena
A proposito del drappellone di Ali Hassoun, dei significati e dei modelli iconografici della
Madonna nel palio