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Di luce e polvere. Nuovo Cinema Paradiso in terra ungherese

Esther Kinsky, scrittrice e traduttrice pluripremiata, è nata e risiede in Germania, ma il suo spirito apolide – bella e arricchente è per lei la condizione di straniera – l’ha portata a vivere in diversi paesi. Tra questi l’Ungheria, che ama in modo particolare per la sua storia e cultura, e dove, fosse trovata un’alternativa all’autocrate Orbán, le piacerebbe trasferirsi stabilmente (per un periodo aveva vissuto a Battonya, una cittadina di nemmeno 7000 abitanti).

Non è dunque un caso che sia ambientato in Ungheria il suo ultimo romanzo “Di luce e polvere” (Iperborea, traduzione di Silvia Albesano). Una storia tra fiction e memoir che testimonia due amori dell’autrice: quello, appunto, per il mondo magiaro (i diversi mondi che esso racchiude) e quello per il cinema. Al centro del racconto è l’edificio abbandonato di un paesino dell’Ungheria che sulla facciata mostra ancora l’insegna “Mozi” (“Cinema”). A notarla e percepirne tutta la forza evocante è una viaggiatrice straniera. Pensa a quale appartata memoria sia racchiusa tra i muri di quel cinemino destinato alla fatiscenza, sorto quasi prodigiosamente nel dopoguerra, e per anni luogo di riferimento del borgo. Decide di acquistarlo e, forzando la realtà con il grimaldello dell’utopia, rimetterlo in attività. Si fa aiutare nell’impresa da Józsi, l’ex proiezionista ora riconvertitosi a riparare biciclette, e dalla moglie Ljuba, che – cinema nel cinema – si era innamorata di lui quando un fulmine aveva interrotto la proiezione del suo film preferito.

Il Mozi – sorta di Nuovo Cinema Paradiso in terra ungherese – riapre così i battenti, immutato negli arredi, nell’attrezzatura, con le foto delle vecchie star. Vi si proiettano pellicole d’autore. Una programmazione per pochi, talvolta per nessuno, considerata la scarsa presenza di pubblico. Ma non importa. E’ pur sempre un atto di resistenza e di fede nella magia del cinema (inteso anche come luogo fisico) che a un pubblico reale (gli uni accanto agli altri) apre finestre su universi e spaccati d’umanità. In una recente intervista (La Lettura, 30 marzo 2025) Esther Kinsky ha dichiarato: “Penso che credere in un’istituzione come il cinema richieda speranza. L’idea che recarsi in un luogo pubblico possa suggerire povertà è una sconfitta, la resa alla logica del profitto. Il cinema, come una biblioteca di paese, per me è un atto di solidarietà silenziosa, dove si condivide un’esperienza con estranei”.

Ecco dunque le ragioni di questo romanzo, a tratti quasi fiabesco: una dichiarazione d’amore per il cinema, per quanto significa e veicola. Prodigioso fascio di luce che, da dentro il buio, fa spalancare occhi sulla lontananza, fino a renderla prossima, abitabile, possibile alle nostre esistenze. Così che il cosa e il come vediamo può cambiarci la vita.

***

È il vedere che determina il nostro posto all’interno del mondo che ci circonda.
John Berger, «Questione di sguardi»

Dove puntare lo sguardo?
Ci sono due aspetti legati al vedere: che cosa si vede e come. Il vedere più lontano riguarda solo il come. Il come è legato alla posizione che si assume nell’atto di vedere. All’angolazione dello sguardo e alla distanza dalle cose, dalle immagini, da ciò che accade. Alla prossimità e alla lontananza, alla vastità. La vastità è più della lontananza, è quel che ci permette di accedere al possibile. Vale per la vista di paesaggi, luoghi, persone, opere d’arte. Nel secolo scorso nessun luogo ha avuto più importanza per il come vedere, per la consapevolezza della posizione che ci si attribuisce o che si assume nell’atto di guardare, del cinema in quanto spazio fisico. Questo spazio, la cui rilevanza e il cui valore non sono durati nemmeno cent’anni, negli ultimi decenni si va chiudendo sempre di più. Lo sguardo dal buio verso una lontananza creata dal film si riduce progressivamente con la scomparsa di questo spazio di visione. L’esperienza collettiva legata allo spazio e la gioia più o meno esplicita per la possibilità di fare esperienze simili stanno scomparendo, ed è una perdita che, rimpianta o meno, va descritta e merita alcune considerazioni. Il cinema è stato il teatro di un secolo. Oggi le opinioni sul rapporto con questo luogo sono divise. Perché il cinema? I film sono accessibili in altri formati. Ormai sono in pochi a ritenere la black box della sala, che creava la cornice, un indispensabile luogo del vedere, e l’ostinazione nel voler fare esperienza dei film al cinema è talvolta perfino liquidata come elitaria. Come se si trattasse soltanto del che cosa. E non più del come.
Nonostante lo si confini ai margini degli accadimenti, il cinema come luogo del vedere conserva un’aura mitica. Più la privatizzazione di tutte le esperienze divora la vita, più appare fiabesco un luogo in cui l’esperienza del vedere era collettiva, in cui lo humour, la paura, l’orrore e il sollievo trovavano un’espressione comunitaria senza che nello spazio buio venisse compromesso l’anonimato. Anche chi non va più al cinema conosce in qualche modo la peculiarità dell’esperienza, del luogo, dell’entrare in un’oscurità da cui si punta il proprio sguardo altrove, della tacita regola: «Tutti gli sguardi nella stessa direzione», la direzione stabilita dal proiezionista invisibile al pubblico.
Guardare è un’abilità che si apprende. Una capacità di cui si diventa lentamente consapevoli. Se lo si desidera. Al principio c’è sempre lo sguardo incorniciato. Dal dentro al fuori, dalla finestra il cui contorno determina il mondo per chi guarda fuori. Poi la scoperta della differenza tra la vista delle cose dalla finestra e quella delle stesse cose all’esterno, circondate da un mondo non incorniciato, con l’occhio che è a sua volta parte di quel mondo. Lo sguardo infantile dalla finestra in una mattina d’inverno, di brina e nebbia, resta impresso nella memoria come un segreto e una promessa; lo sguardo posato sulla stessa porzione di terreno inselvatichita e circoscritta dal viottolo del giardino o dal ciglio della strada suscita confusione, si imprime come ricordo della propria presenza in quella mattina, dell’alterità del mondo che deve essere esplorato. La mattina d’inverno come il primo film: un montaggio di diverse prospettive e orientamenti dello sguardo. Passare da una finestra all’altra della casa per vedere il fuori trasformarsi in scorci che soltanto l’occhio che guarda è in grado di leggere e completare col racconto, scorci che all’esterno, avendo rinunciato alla propria cornice, diventavano punti di riferimento grazie ai quali l’Io che guarda determina la propria posizione. Lì fuori si era nel mondo e ci si guardava intorno fin dove l’occhio arrivava in cerca di un appiglio, mentre all’interno, davanti alla finestra, si guardava il frammento incorniciato al quale si poteva attribuire o negare un significato assoluto.
[…] Nella mia infanzia il cinema non era affatto un’esperienza quotidiana. Sono cresciuta in un sobborgo, senza televisione, ma non abbastanza vicino a un cinema per poterci andare regolarmente, magari tutti i fine settimana. Di tanto in tanto arrivava un cinema itinerante, in una palestra veniva montato un proiettore e proposto un programma. Charlie Chaplin, più raramente Buster Keaton, che con la sua assurdità invitava al caos, documentari sulla natura, cartoni animati. A causa della miopia dovevo sedermi nelle prime file e Bambi, con i suoi occhioni sgranati e le proporzioni distorte degli animali, mi rubò il sonno per settimane. Il cinema era meglio con i «veri film», come Nils Holgersson, anche se il finale era sempre duro da sopportare. Non per la storia ma perché il film era finito, perché non si poteva più continuare a vedere, perché la vista su un altrove attraverso quello schermo-finestra si chiudeva. In seguito mio padre ci portò qualche volta con sé, noi bambini, in un cinema vicino alla stazione dove proiettavano un cortometraggio, un film e un cinegiornale a ciclo continuo. In qualsiasi momento ci si poteva unire allo scarno pubblico, cercarsi un posto al debole chiarore della torcia elettrica della maschera e mettersi a sedere. Con un solo biglietto si poteva trascorrere lì l’intera giornata, come alcune persone facevano nei giorni freddi o umidi, e dopo aver assistito a tutto il programma per due volte magari finivano per addormentarsi. Tanti fumavano sigarette, ricordo le nuvole di fumo che salivano davanti allo schermo e fluttuavano per la sala. La maggioranza degli spettatori veniva senz’altro per ingannare il tempo in attesa del treno, avevano con sé piccole valigie o borse da viaggio, una volta qualcuno seduto nella nostra fila si dimenticò il bagaglio uscendo a precipizio per arrivare in tempo al suo treno o a un appuntamento. Ricordo l’odore stantio del cinema, la pesante tenda di feltro grezzo all’ingresso, con gli angoli inferiori di pelle o finta pelle che strisciavano sul pavimento di linoleum, la maschera con i capelli arricciati e la faccia stanca, che si preoccupava sempre di trovarci una fila in cui non c’era nessuno.
Mio padre era una persona di poche parole, e le gite in quel cinema avvenivano quasi sempre senza preavviso, in seguito capitava che ci lasciasse lì quando aveva delle cose da sbrigare, e noi non ci muovevamo dal posto. Non si esprimeva mai sui film che vedevamo, ma a volte mi veniva da pensare che quei film potessero essere messaggi, dallo schermo a lui, o da lui a noi.

[da Di luce e polvere di Esther Kinsky, trad. di Silvia Albesano, Iperborea, 2025]

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