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Cyber-bullismo, vandalismo, risse. Come si declina la violenza giovanile

I preadolescenti sono violenti. Gli adolescenti sono violenti. I giovani sono violenti. Da soli o, più spesso, in gruppo, i ragazzi (a volte anche le ragazze) di età compresa tra i dieci e i venticinque anni sfogano la loro aggressività contro le persone, contro gli animali, contro gli oggetti. Mobbing, bullismo, cyberbullismo, molestie sessuali, risse, omicidi, vandalismo, sono i diversi modi in cui si declina la violenza giovanile, la quale, finché non viene compresa nelle sue motivazioni profonde, non può venire arginata.

Occorre, innanzitutto, liberarci dall’idea che ad essere violente siano unicamente le ultime generazioni. La violenza, infatti, è un tratto costitutivo della natura umana e non sorprende affatto che proprio in quella fase dell’esistenza nella quale maggiore è, accanto alla forza sessuale (procreativa) e alla forza ideativa, anche la forza biologica, cioè dai quindici ai trent’anni – come ricorda tra gli altri Umberto Galimberti nel corso di una lunga intervista rilasciata a Marco Alloni –   più diffusi e frequenti siano i gesti di aggressività, di crudeltà, di sopraffazione. Una conferma di ciò credo che ciascuno di noi la rinvenga tanto volgendosi al proprio passato (gli anni di scuola media, inferiore e superiore, gli anni universitari) quanto nel ricordo di qualche pagina letta, penso, tra le tante, a quel passo de “Il giovane Holden” di J. D. Salinger, nel quale viene descritto uno scontro fisico tra il protagonista (la voce narrante) e Stradlater: “Ad ogni modo, la prima cosa che seppi fu che stavo su quel maledetto pavimento e lui mi stava seduto sul torace, rosso in faccia. O meglio, lui mi teneva le sue dannate ginocchia sul torace, e pesava almeno una tonnellata. E per giunta mi teneva stretto per i polsi, così non potevo dargli un altro pugno. L’avrei ammazzato”.

Tuttavia, la continuità (di comportamenti, di atteggiamenti) non deve impedirci di cogliere la differenza con cui la violenza giovanile si esprimeva ieri e si manifesta oggi. Non penso tanto alla violenza preadolescenziale, che è fondamentalmente impulsiva e, come tale, si pone al di là di ogni valutazione delle conseguenze che un gesto può avere sugli altri e per se stessi. Ho in mente, piuttosto, le azioni compiute da ragazzi più grandi, diciamo dai quindici anni in poi, i quali, da un lato conoscono (o dovrebbero conoscere) il nesso di causalità che lega gli eventi, dall’altro sanno (o dovrebbero sapere) controllare le proprie emozioni, tradurle in parole e non risolverle immediatamente in gesto, viverle come fattore indispensabile al rafforzamento della dimensione sociale dell’esistenza e non già come elemento di indebolimento o di cancellazione di quest’ultima. Sotto questo aspetto, un mutamento è avvenuto, un mutamento che non concerne soltanto il numero, in crescita, degli episodi di violenza. Quando dei giovani, infatti, che si sono resi responsabili di soprusi a scuola nei confronti di uno studente disabile, che hanno infamato e deriso sui social per settimane una compagna di classe, al punto da spingerla a suicidarsi, che hanno picchiato a sangue un ignaro passante, che hanno colpito con un pugno (il Knockout) o con un calcio (il Kickout) una persona a caso lasciandola poi a terra, che hanno gettato da un cavalcavia dei sassi sulle auto che transitavano, che hanno bruciato un clochard o ucciso una religiosa, affermano di averlo fatto “per gioco” o “senza movente alcuno”, quando ciò accade, significa che qualcosa è cambiato nel modo di vivere la giovinezza, con la sua forza, la sua energia difficilmente arginabile, la sua identità fluttuante.

Due libri usciti a metà degli anni Novanta, “Fango” di Niccolò Ammaniti e “Bastogne” di Enrico Brizzi, è impensabile immaginarli scritti negli anni Sessanta o Settanta, mentre continuano ad apparire estremamente attuali. Lo dico non riferendomi alla poetica sottesa (la cosiddetta “letteratura cannibale” è morta e sepolta da tempo, e non sono certo io che mi rammarico del suo precoce decesso), piuttosto guardando al tema di fondo di questi due libri, che è quello della violenza giovanile. Perché un racconto come “Rispetto” – titolo volutamente antifrastico – di Ammaniti o il capitolo iniziale del secondo romanzo di Brizzi mettono in scena una violenza, in questo caso contro delle donne, che è del tutto gratuita, priva di altro scopo che non sia quello di riempire ore vuote di significato, rabbiosa, figlia della noia, indifferente a ogni distinzione sociale o di scelta politica. Nessun nemico, nessun avversario, nessun antagonista. Ma non è forse questa la violenza che vede protagonisti tanti dei nostri adolescenti e dei nostri giovani? Ma non è forse questa la violenza che spinge genitori, insegnanti, uomini di legge a interrogarsi sulla bancarotta di quelle che a lungo sono state le due principali agenzie formative – la famiglia e la scuola – e sull’inadeguatezza di un sistema giudiziario troppo lento, la cui lentezza è già sintomo di iniquità e di impunità? E così una letteratura come quella degli scrittori “Cannibali”, che più che alla vita reale ha sempre guardato, come fonte di ispirazione, ai film (d’azione o del genere horror), ai romanzi a fumetti (graphic novels), ai videogiochi, si è tramutata con gli anni nella fotografia, piuttosto fedele, dell’attuale devianza giovanile. Che fare? Occorre ripartire da zero, occorre fare riscoprire il senso di parole come vita, creatura, dignità della persona. In una società, infatti, che celebra soltanto le merci, che indica nel consumo il fine dell’esistenza, che ha nella televisione e in Internet gli strumenti formativi dei ragazzi, può succedere – perché succede ogni giorno – che la differenza tra un oggetto e un essere umano vada smarrita o non sia più avvertibile, specie da chi sta crescendo, o è cresciuto, ignorando il senso di una parola come “noi”. E così accade che nelle discariche insieme alle cose vecchie finiscano anche gli uomini, un po’ per gioco, un po’ per passatempo.

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