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Come vento cucito alla terra. Ilaria Tuti racconta la storia delle prime chirurghe

“Noi donne non siamo mai chiamate a decidere della guerra, solo a riparare i danni che fa”. Questa frase chiarisce il senso del romanzo storico che Ilaria Tuti costruisce, “Come vento cucito alla terra” (Longanesi), intrecciando sapientemente come in un arazzo storie di cambiamento al femminile e al maschile. Donne che diventano bravissime chirurghe di guerra e uomini distrutti nel fisico e nell’animo, mutilati, annientati, pieni di rabbia che attraverso il ricamo recuperano una nuova presenza e una creatività mai esplorata. Il punto di vista dei reduci, feriti nel corpo e nella mente, è stato davvero un fortunato espediente per raccontare l’orrore della guerra. Sconosciuta ai più la vicenda degli effetti terapeutici del ricamo, che effettivamente fu utilizzato negli ospedali di guerra come antidoto al dolore immenso che questi uomini si portavano addosso. Forse se ne sa poco per lo stesso motivo per cui fu ostacolato e mal visto all’epoca e dopo forse hanno cercato di rimuoverne le tracce. Poco virile vedere un soldato se pur ferito avvicinarsi con ago e filo alla preziosa arte del ricamo, ritenuta una competenza esclusivamente femminile. Eppure i più non sanno e nemmeno l’autrice ne fa menzione che nel Rinascimento a Firenze erano gli uomini a occuparsi del ricamo, solo secoli dopo subentrarono le donne.
 
“Come vento cucito alla terra”, un titolo pregnante per un libro coinvolgente, che si segue bene dall’inizio alla fine, scritto in una prosa ricca e metaforica. “Era l’anima a bruciare di puro istinto, a sopravvivere perché dimentica di tutto ciò che era stata nella vita precedente; un altro sé, fino ad allora rimasto sopito, si era risvegliato e faceva digrignare i denti, conficcare le unghie, riconoscere il ringhio di un’altra bestia umana acquattata nelle fosse buie, e il sibilo di una bombarda in arrivo”. L’orrore della guerra è descritto molto bene, ma mai in modo da creare disturbo in chi legge, senza compiacimento. “Praticava l’orrore, il nemico. Sterminava civili, vecchi, donne e bambini. Distruggeva ogni storia che non fosse la propria. Era una tattica. Calpestava per piegare la volontà dei sopravvissuti. […] Hanno inventato armi automatiche, bocche da fuoco ancora più potenti e devastanti. Agli uomini non bastava la morte come la conoscevano. Dovevano renderla ancora più orribile.”
 
Dopo il successo di “Fiore di roccia”, Ilaria Tuti dimostra ancora notevoli capacità nel raccontare una vicenda storica molto importante, senza trascurare le piccole storie che riescono a coinvolgere e appassionare. Siamo in Inghilterra, nel 1914, durante i primi mesi della Prima Guerra Mondiale. Il capitano Alexander Allan Seymour, soffre in trincea con i suoi soldati, e alternando i capitoli compare anche una donna, la dottoressa Cate Hill, che opera in un ospedale con le sue colleghe; la narrazione ci presenta, alternate, la guerra degli uomini e quella delle donne, combattute su due sponde diverse del medesimo fiume, un fiume, una sorta di Acheronte,  che vomita cadaveri e orrore: da una parte vediamo il fronte, la trincea, dall’altra un ospedale in cui salvare più vite possibili e dimostrare, contro il pregiudizio e la calunnia, di essere medici validi tanto quanto gli uomini, se non di più. Infatti, un gruppo di dottoresse, guidate dalle due suffragette e pioniere Louisa Garrett Anderson e Flora Murray, aprirono in Francia la prima unità chirurgica interamente gestita da donne, per curare soldati feriti. Il WHC, Women’s Hospital Corps, nato con il supporto dell’Ufficio della Croce Rossa di Parigi. Fu una vera rivoluzione: alle donne, fino a quel momento, era permesso solo curare donne e bambini in ospedali di carità. Queste dottoresse, oltre a svolgere un ruolo medico fondamentale, hanno aperto la strada, alle donne venute dopo di loro. In un’epoca in cui a una donna era tutto precluso si apre una breccia, e nel contempo il libro affronta un dilemma importante. Realizzarsi anche per il bene comune ma rischiare di perdere il ruolo di madre? O forse mostrare attraverso le scelte consapevoli la strada ai propri figli? guidandoli alla realizzazione personale, staccando le ali da terra. “Il mondo sta cambiando, Ma’am, e lo farà con o senza il beneplacito di chicchessia […] ma la storia, la grande storia, ricorderà per sempre i nomi di chi ha scelto di stare dalla parte giusta”.
 
Si intuisce che se il percorso è stato tracciato rimane ancora tanto da fare, ma la spinta resta sempre il desiderio di conoscere, di confrontarsi con gli uomini in campo professionale. “Se oggi falliamo, non sarà un problema solo nostro. Se non saremo all’altezza, ci distruggeranno, e insieme alla nostra reputazione, alle nostre carriere, chiuderanno le porte delle opportunità a tutte le altre”. Sono diversi i personaggi e i fatti reali raccontati in questo romanzo e l’autrice si augura di averli restituiti con la gratitudine e la pienezza che meritano. “Ho riempito le pieghe della storia con la mia fantasia, ma guidandola sempre con il rispetto e il sentimento necessari per rendere omaggio alla forza e al coraggio di queste persone”. Si decisamente intrecciare due storie di emancipazione maschile e femminile è la forza di questo libro, il finale non è all’altezza, ma ci sta. La scrittura è ricca e densa di metafore, soprattutto all'inizio. La trama risulta appassionante e la ricostruzione storica inappuntabile.
 
“Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, e perché egli non è più lo stesso uomo. Alexander si era bagnato nel sangue dei compagni e in quello del nemico. Si era lavato da quel sangue sorretto da mani di donne, in una vasca che aveva rappresentato il suo battesimo. Era riaffiorato tra le braccia di Cate, da lei sostenuto nei primi passi che seguivano la rinascita. Non era lo stesso uomo che in quella vasca era entrato. Se la vita richiedeva follia e coraggio, loro due potevano dire di averli entrambi”.

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