César Vallejo (Santiago de Chuco 1892 – Parigi 1938) non è poeta molto conosciuto, ma è considerato una delle voci più importanti della letteratura ispano-americana del Novecento. Nato in un villaggio andino del Perù, morto a Parigi per una malattia che non fu possibile diagnosticare. Il critico e biografo Martin Seymour-Smith non ebbe dubbi: “Vallejo è il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua". Indubbiamente i suoi versi hanno inciso significativamente nella poesia novecentesca. Poesia di testa e cuore, di slanci etici e sociali, di sentimenti intimi e collettivi. Così come fu innovativo il linguaggio che seppe mettere insieme il colloquiale con la ricercatezza di certi barocchismi, il parlato indio con quanto l’avanguardia europea andava sperimentando. Anche lui, come tutti i poeti, credette alla forza della parola: “E se dopo tante parole, / non sopravvive la parola! […] Sarebbe meglio, in verità, / che si mangino tutto e si finisca”.
Mi viene, a giorni, una voglia uberrima, politica,
di amare, di baciare i due volti dell’affetto,
e mi viene da lungi un amore
dimostrativo, altro volere amare, ad ogni costo,
chi mi odia, chi lacera il suo foglio, il ragazzetto,
quella che piange per quello che piangeva,
il re del vino, lo schiavo dell’acqua,
chi si nascose nella propria ira,
chi suda, chi passa, chi dentro a me scuote la sua persona.
E voglio pertanto riordinare
la treccia a chi mi parla, i capelli al soldato,
la luce al grande, la grandezza al piccolo.
Voglio personalmente stirare
un fazzoletto a chi non può piangere
e, quando sono triste o mi duole la felicità,
rammendare i bambini e i geni.
Voglio aiutare il buono ad essere un tantino cattivo
e ho urgenza di sedermi
alla destra del mancino e rispondere al muto,
cercando di essergli utile
in quel che posso, e voglio anche moltissimo
lavare il piede allo zoppo
e aiutare a dormire il guercio prossimo.
Che amore è questo mio, questo mondiale,
interumano e parrocchiale, valido!
Mi viene a proposito
su dal supporto, dall’inguine pubblico
e, arrivando da lontano, invoglia di baciare
la sciarpa al cantore
e a chi soffre baciarlo nel suo strazio,
al sordo nel suo ronzio cranico, impavido;
a chi mi dà ciò che ho scordato in cuore,
nel suo Dante, nel suo Chaplin, nelle sue spalle.
E, per finire, voglio,
quando di violenza tocco il noto limite
o il cuore ho pien di forza, vorrei
aiutare chi sorride a ridere,
mettere un uccellino al malvagio in piena nuca,
fino a irritarli assistere i malati,
comprare al venditore,
aiutare l’uccisore ad uccidere – orrendo compito! –
e vorrei esser buono con me stesso
in tutto.
[César Vallejo, “Mi viene, a giorni, una voglia uberrima, politica…”, da Poemi umani, traduzione di Roberto Paoli, in Tutte le poesie, vol. II, Nuova Accademia, 1976]