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Carlo Fruttero e Vincenzo Consolo in terra di Siena

Per le ineludibili leggi della vita – si dirà – il secolo nemmeno giovinetto, giorno dopo giorno canta mesti requiem ai letterati che del trascorso Novecento furono voce e testimonianza. Mesi or sono ci hanno lasciato due poeti, prima Giovanni Giudici (e fu inevitabile non pensare a quei suoi versi: “C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte. / Morire la mia vita non era naturale”); poi “l’atroce usuraio”, il tempo che pretende vita, si è preso Andrea Zanzotto. Giorni fa sono stati Carlo Fruttero e Vincenzo Consolo a congedarsi dal magma dell’oggi dove ciascuno dei due aveva comunque conficcato il proprio cuneo: l’uno, quello della lucida ironia; l’altro, di una denuncia pronunciata con una lingua che già in sé costituiva sfida. Sia Fruttero che Consolo incontrarono Siena nell’arco della loro vita. Vogliamo qui ricordarlo non per compiacere quel provincialismo cui piace lustrarsi alla luce dei Grandi, ma perché sempre interessante è vedere con occhi altri ciò che per noi costituisce consuetudine, e a maggior ragione quando l’altrui sguardo abbia il baleno della perspicacia e dell’universalità.

Piazza del Campo “cifra dell’enigma” – Alla penna di Carlo Fruttero – che, come è noto, spesso ebbe a scrivere in società con quella di Franco Lucentini (firmavano Fruttero & Lucentini a mo’ di premiata ditta) – dobbiamo “Il palio delle contrade morte”. Un romanzo tra poliziesco e fantasy che Lorenzo Mondo ha definito straordinario, “una sfilata di fantasmi che denunciano, insieme alle frodi e alle crudeltà della Storia, le compromissioni e le insolvenze di ciascuno nei confronti della propria vita”. Il libro, pubblicato nel 1983, al di là della vicenda raccontata sa cogliere, a mio avviso, quanto di ‘spiritico’ è nel Palio (incontro di viventi e di trapassati), il suo essere ‘fantasma’ di una storia che, in quanto tale, sopravvive a se stessa. I due protagonisti, l’avvocato Maggioni e sua moglie, guardano la festa che si svolge sul Campo affacciati a due diverse finestre. Osservano “lo smussato poligono della piazza acceso da colori d’una varietà incalcolabile, da quelli più squillanti delle bandiere agli ocra pallidi dei palazzi e alla vertiginosa picchiettatura della folla”. Lui – quasi come se il presente dei suoi pensieri si sfaldasse di continuo nel passato – intuisce che laggiù nella “grande conca” è decifrabile l’enigma: che cioè la vita (proprio come quella che si rinnova nel Palio) è gioco di reiterati ruoli e perciò non avrà mai un termine definitivo; che la realtà è ciò che noi ci costruiamo. Tant’è che l’avvocato Maggioni conclude: “Ci hanno voluti qui […] come testimoni, per non essere i soli viventi (‘viventi’?) su questa piazza, su questa terra, a veder correre questo Palio delle loro risuscitate contrade. […] Avevano bisogno di noi per dar corpo alla loro corsa fantomatica, per in qualche modo confermarla, sostanziarla…, toglierla dal limbo del virtuale, del mero immaginario”. Insomma a Fruttero e Lucentini non sfuggirono i riposti significati, gli ‘anacronismi’ e i sublimi paradossi della festa senese.

Val d’Elsa “serena e narrabile” – Per venire, invece, a Vincenzo Consolo, egli ha lasciato traccia letteraria di una sua visita in terra di Siena (precisamente in Val d’Elsa) alla fine degli anni Novanta, appuntando le sue impressioni di viaggio che furono poi raccolte nel libro-calendario 1997 edito dall’Azienda di promozione turistica. Lo scrittore siciliano nutrì per la sua terra d’origine un amore sofferto, fatto di slanci e delusioni, di continue partenze e ritorni. Nel bene e nel male quell’isola fu per lui un costante parametro di giudizio sulla storia, sugli uomini e sulle cose. Girovagando tra Monteriggioni, San Gimignano, Colle, si ricorda di un analogo viaggio fatto quarant’anni prima in quei medesimi luoghi dall’amico Leonardo Sciascia (ne è testimonianza una poesia giovanile dedicata a San Gimignano) ed immagina che anche al suo corregionale, proveniente “da una terra di mafia e zolfatare, dura e aspra, drammatica”, la Val d’Elsa potesse essere apparsa come “una realtà ideale: quieta, coltivata”. Così che Consolo dirà: “Per me, siciliano come Sciascia, valgono gli stessi motivi dinanzi alla partitura di luce e colore stesa nella seconda metà del quattrocento da Benozzo [allude agli affreschi sangimignanesi di Benozzo Gozzoli nella chiesa di S. Agostino] che ci parla di un mondo dove i conflitti non sono distruttivi; la storia, come la natura, non è sottoposta a traumi continui e irreversibili, ma serena, urbana, narrabile…”. Con folgoranti annotazioni, il viaggio valdelsano di Vincenzo Consolo prosegue. La piazza all’interno della fortezza di Monteriggioni lo fa pensare ad una “antica agorà greca”; transita su tratti di via Francigena (percorso divenuto “bizzarro e intrigante culto”); sosta a Poggibonsi, cuore economico della valle che racconta di storie e di conflitti sociali più recenti. Ma resta affascinato dalle campagne intorno a Casole d’Elsa, dove, a suo dire (e cita Pasolini), “si sente il vasto ancestrale respiro degli etruschi che azzurri dormono”. Ed ecco tornare un raffronto con la Sicilia: “rispetto alla natura tragica, sconvolta da terremoti e vulcani, e dalle corruzioni umane, cui sono abituato io siciliano, questo è il luogo della remissione: armonia, felicità sociale…”. Persino l’ulivo rappresenta due modi d’essere, “quello delle mie terre, ad esempio, esprime tutto il tormento siciliano, nelle contorsioni, nelle ferite prodotte dai fulmini e da malattie…, mentre l’ulivo di questa campagna è un segno invece di serenità e compostezza e direi di persuasione”.

Altre volte è capitato di ricordare come il racconto letterario riveli, sovente, una nuova percezione di luoghi, uomini, storie, accadimenti. Le terre di Siena vantano in proposito un’ampia antologia. E il florilegio di tali narrazioni può registrare, per la sua piccola parte, anche il magistero stilistico di Carlo Fruttero che (si scuserà il gioco di parole, non amava certo i luoghi comuni), così come la lingua ‘scelta’, carnale, evocante di Vincenzo Consolo. Muoiono dunque gli scrittori, restano le loro parole ad informare le nostre.

Articolo pubblicato su Il Corriere di Siena del 28 gennaio 2012

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