Tra gli anniversari di questo 2017 troveremo anche il centenario della nascita di Carlo Cassola (e i 30 anni dalla sua morte). Scrittore lasciato dalla critica in un limbo cosparso di ‘se’ e di ‘ma’, chissà se la ricorrenza porterà a concludere un giudizio complessivo finora rimasto in sospeso. Fu (insieme a Manlio Cancogni) assertore della poetica del sublimine. Di quanto, giustappunto, sta sub limine, sotto la soglia delle cose ordinarie. Laddove le cose della vita (fugaci epifanie) subito sfuggono, depositandosi nella memoria e nel fluire del tempo. Convinzione di Cassola era che al livello minimo della vita, nella sua ripetitiva quotidianità, si trovasse il massimo grado della consapevolezza (e persino della felicità) di esistere. Ecco, allora, l’insistito racconto cassoliano che predilige a protagonisti gli umili, i non-eroi, un mondo provinciale e popolare descritto allo stato primordiale, senza filtri ideologici, morali, senza il compiacimento della scrittura. Da ciò anche la scelta di un linguaggio asciutto, controllato, che, proprio nell’esercizio della sottrazione, raggiunge i migliori risultati lirici. Uno dei testi più riusciti e perfettamente coerente con tale dichiarazione di poetica è “Ferrovia locale”. Nei piccolissimi universi di cose e persone che quella ferrovia costeggia, dove la vita è solo ciò che accade – dunque pressoché ‘nulla’ – palpita comunque “il sentimento dell’esistenza”.
L'ombra della stazione si stendeva fino al binario morto; quella del casotto non arrivava a coprire il marciapiede. Le ombre degli oleandri erano anche più corte: le punte si muovevano, come se spazzassero in terra. Gino continuò sotto il sole. Qualcosa di lucente attirò la sua attenzione: ma era solo un sasso rotolato dalla massicciata.
Si fermò all'altezza dello scambio. Prima di mettersi al lavoro si sputò nelle mani.
Anche Dina faceva colazione tardi, dopo aver sbrigato le faccende. Le altre mattine cominciava dalla camera, per avere il tempo di far prendere aria alle lenzuola: Diego non voleva veder nulla alla finestra, né lenzuola né tappeti, quando c'era gente in stazione.
Si mise a spolverare il salottino. S'era affacciata a scuotere il cencio: e rimase a guardare le verghe che correvano via dritto. In fondo sfavillavano, come se il sole le incendiasse.
Il contadino lavorava coi buoi subito sotto il poggio. La terra arata di fresco luccicava. Una rondine si abbassò: volava radente, a scatti.
La carrareccia si arrampicava ripida intorno al poggio. La casa era in cima, proprio sopra la balza giallastra. I pagliai parevano gravati dall'afa come se fosse già mezzogiorno.
Si sentì una fucilata. Ingannata dal rimbombo Dina guardò la pendice.
I cacciatori venivano col primo treno: li aveva sentiti anche quella mattina. Dovevano essere in parecchi. Aveva sentito lo scricchiolio degli scarponi chiodati, i fischi di richiamo ai cani e le voci che si allontanavano.
Con l'arrivo della corriera una piccola folla si riversò in stazione. Era tutta gente che andava poco lontano, avevano al più qualche fagotto. C'era anche una signora, che se ne stava in disparte.
Proprio sotto la sua finestra un uomo parlava della malattia della sorella. Diceva che non c'era speranza. Una donna lo interruppe per chiedergli se l'ora del passo era sempre tra mezzogiorno e l'una.
Dina guardava una ragazza con un vestito verde. Non aveva fagotti, solo una borsa infilata al braccio. Parlava con una donna, ma non dovevano essere insieme. Il campanellino cominciò a suonare. Si udì un mormorio di soddisfazione. Parevano tutti contenti di partire, anche l'uomo che andava a trovare la sorella all'ospedale.
Gino s'era piantato in mezzo ai binari con la bandiera arrotolata sotto il braccio. Appena il treno comparve nel buco della galleria, la spiegò e cominciò a fare i segnali. La locomotiva si fermò a pochi passi; per il contraccolpo i vagoni tornarono indietro. Si aprirono quattro o cinque sportelli. Per prima scese una donna che Dina conosceva di vista.
Il sottocapo correva su e giù, diede un fagotto al macchinista, prese un pacchetto dal capotreno; alla fine fischiò la partenza. Sfilarono il bagagliaio, le due carrozze, il carro merci attaccato in coda. Ad aspettare il treno per Pisa era rimasta solo la signora.
[da Ferrovia Locale di Carlo Cassola, Einaudi, 1968]