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“Camminando sotto l’uragano”, una storia d’amore e di libertà

Paolo Goretti ha tenuto a lungo il manoscritto nel cassetto: già nel 1985 l’aveva portato a termine. Un amico, Mauro Rolandi, lo convinse a sottoporlo alla lettura di Carlo Cassola col quale aveva militato nel reparto Guido Boscaglia della Garibaldi  operante, durante la Resistenza sulle Carline. A Cassola l’opera non dispiacque ed in effetti numerose e sintomatiche sono certe affinità di temi o coincidenze di ambientazione. Purtroppo la morte dell’autore di Fausto e Anna, sopravvenuta nel 1987, interruppe un dialogo avviato con simpatetica cordialità. E svanì un possibile sbocco editoriale. Per scrivere Camminando sotto l’uragano, che ora è finalmente uscito con Betti (pp. 384, € 15), Goretti aveva condotto un bel po’di interviste. Don Flavio Pacchiarotti gli aveva descritto la sciagurata avventura lungo il fronte russo, Martino Bardotti i campi di internamento in Francia dei soldati italiani, Rolandi stesso le imprese del Gruppo di Combattimento Cremona, corpo del risorto Esercito Italiano dopo l’8 settembre, e Lucio Rosaia non era stato avaro di dettagli nello spiegargli le mosse dei partigiani sulle Apuane. Ma questi sono solo alcuni dei molti nomi delle persone che hanno dato consigli o suggerimenti o informazioni. Perché Paolo ha puntato fin da subito su un racconto che privilegiasse la freschezza delle fonti orali alla bibliografia depositata in volumi e volumi. L’amalgama in quest’opera di “auto fiction” indiretta, per dir così, è stata poi favorita da un’incisiva memoria personale, che affiora con pungente nostalgia negli squarci senesi. L’itinerario drammatico e gioioso di Duccio, il protagonista, inizia nelle sale del Santa Maria della Scala. Da quattordicenne curioso di quanto lo circonda egli è fortemente influenzato dalle parole – quasi un’iniziazione alla democrazia in tempi di aggressiva dittatura – di un vicino di letto, Bixio, che getta semi destinati a germogliare, insinuando principi che diventeranno segnaletica di orientamento. L’ombra di questo anarcoide versiliese – sarebbe certo piaciuto a Mario Tobino – accompagnerà Duccio lungo tutta la vita. A corroborare le esperienze dirette e i fecondi incontri soccorre una serie fitta di autori ben noti, un repertorio di nomi scelti con cura didascalica: da Gramsci a Machiavelli, da De Amicis a Gobetti, da Croce a Fichte. Duccio nutre uno spiccato interesse per la storia, anche in ciò rivelando propensioni tipiche di tutta una generazione. Del turbinoso e cospicuo côté sentimentale non dirò nulla. Sarebbe un peccato trattenersi su scambi o sensazioni da offrire intatti a chi si accinge a seguire  Duccio in un viaggio che lo condurrà assai lontano dall’amata città natìa. Il suo sguardo si posa su molti luoghi di un’Europa stravolta e ferita. Questo è un punto che va sottolineato e valorizzato. Come la pluralità di voci che alimentano la tenace voglia di combattere appresa nel corso di una Resistenza tutt’altro che compatta. Ciascuno del folto gruppo di giovani coetanei e amici farà la sua strada, approderà al  suo partito, si terrà una sua visione del mondo. Sono due questioni – dimensione europea e diversità  delle idee – da non mettere in sott’ordine. Non intendo proporre l’agile testo di Goretti come un manuale formativo o come canone esemplare di una maturazione che – si sa – seguì le mappe più svariate. Ma è significativo che nei capitoli messi insieme con scrupolo tanto onesto non si esiti a mischiare sapere politico, embrionale o adulto, e vissuto delle relazioni sentimentali o delle accensioni erotiche, disegnate con pudore, intense e decisive. Il titolo potrebbe anche essere “Duccio e Graziella”. Dopo Giovanetti in trincea e Il viaggio breve, questo più ambizioso e orchestrato romanzo conclude la sorta di trilogia, che tratteggia un affresco vivace di avventure e di scoperte: un Novecento registrato per esperienze, ricostruito in diretta o mediato dai racconti carpiti a protagonisti attendibili in lunghi amichevoli colloqui. 

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