Se perfino il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (documento 27 ottobre 2017) si è accorto che quello del bullismo è ormai un fenomeno che richiede tanto un’efficace prevenzione quanto un deciso contrasto, allora significa che il problema è veramente serio. In Italia, infatti, come l’esperienza insegna, la politica arriva sempre drammaticamente tardi, quando chiudere la stalla è divenuto un gesto inutile, talora patetico, perché i buoi sono già scappati.
Il bullismo, sia chiaro, non è una prerogativa del terzo millennio, né a livello di manifestazioni né a livello di forme. Esso, piuttosto, viene da lontano. Per convincersene, è sufficiente leggere un buon romanzo dell’Ottocento e del Novecento oppure recuperare attraverso il ricordo alcuni episodi della nostra stessa infanzia e adolescenza: le percosse, gli sputi, i calci, i palpeggiamenti, le canzonature, le minacce, le derisioni, gli insulti, l’esclusione dal gruppo, il pettegolezzo, costituiscono una costellazione di abusi, azioni, atteggiamenti, che si lasciano rinvenire in ogni tempo, che marcano ogni generazione. Nuova, invece, è la vastità del fenomeno, la visibilità dello stesso, nuovo è il coinvolgimento, in misura pressoché uguale, di maschi e di femmine, oltre al fatto, come ha osservato William Voors ne “Il libro per i genitori sul bullismo”, di tendere a “manifestarsi in modo più violento, con una connotazione sessuale più accentuata anche in età più precoce”. Un elemento, quest’ultimo, particolarmente preoccupante, dal momento che quanto più la vittima è piccola di età tanto più la sua identità è debole, con la conseguenza che l’autostima – senza la quale non può esserci nessun adeguato concetto di sé – viene bloccata nel suo sviluppo dallo squilibrio di potere (fisico, psicologico) esistente tra colui che fa il bullo e colui che è costretto a subire.
Nuovo, però, risulta essere soprattutto lo spazio nel quale va in scena il bullismo del terzo millennio. Un caso di abuso su tre, infatti, ha luogo in chat o, comunque, in Rete, al punto che il termine cyberbullyng, coniato dal canadese Bill Belsey, ha abbandonato da tempo il ristretto campo degli addetti ai lavori ed è divenuto familiare a studenti, genitori, educatori. Grazie alle nuove tecnologie, il suscitare imbarazzo, il molestare, il denigrare, l’offendere, l’intimorire, si sono ormai sottratti alle restrizioni imposte da uno spazio specifico (la classe, lo spogliatoio) e da una ben determinata parte della giornata (la mattina, il primo pomeriggio) e, soprattutto, possono svolgersi nel più completo anonimato, che non prevede l’incontro / scontro diretto tra la vittima e i carnefici. Con un sms, introducendosi in un forum online, visitando un sito a domande e risposte, con un commento su un social network, postando video e immagini intime, rubando il profilo di altri, è possibile oggigiorno conseguire lo stesso risultato che un tempo si poteva raggiungere con l’aggressione fisica o verbale oppure relegando ai margini del gruppo, o perfino ostracizzando, il più debole, il diverso, il timido. Identiche appaiono le conseguenze a livello emotivo riportate da chi subisce un atto di bullismo, identica la ricaduta sia sulla sua carriera scolastica sia sulla sua maturazione psicologica e sociale.
William Voors, nel già citato “Il libro dei genitori sul bullismo”, dispensa un’articolata serie di consigli per aiutare tanto chi ha un figlio che è vittima di uno o più bulli quanto chi ha un figlio che si comporta da bullo, il cui atteggiamento non deve essere sbrigativamente liquidato come l’espressione di una natura cattiva, bensì – scrive l’autore – come la manifestazione dell’avere una “vita emotiva confusa”. In entrambi i casi, però, è di fondamentale importanza intervenire celermente, al fine di evitare che le aggressioni patite durante l’adolescenza si traducano in depressione, ansia, fobie, destinate a ripresentarsi con regolarità nel corso dell’esistenza, e che le aggressioni compiute quando si era ragazzi si trasformino in un habitus violento, antisociale, fondamentalmente distruttivo e autodistruttivo. Però, al di là dei singoli suggerimenti pratici, certamente utili, ritengo personalmente che il bullismo possa venire arginato soltanto se si agisce su un piano diverso. Il danno maggiore che si potrebbe arrecare a chi la violenza la subisce e a chi la violenza la compie, è il minimizzare. Il bullismo non è affatto uno scherzo, liquidabile con una pacca sulle spalle e dicendo “Non lo fare più”. Occorre, piuttosto, mettere il bullo faccia a faccia con le cicatrici che certi soprusi lasciano in una persona, occorre giorno dopo giorno, all’interno di una comunità o nella stanza dei servizi sociali, mostrargli quante esistenze non sono mai completamente sbocciate, perché quando quel ragazzo aveva undici o quattordici o diciassette anni, ci fu qualcuno che in maniera sistematica lo derise, lo percosse, lo offese, fino a farlo sentire una nullità, fino a fargli avvertire un brivido lungo la schiena, ogni volta che prendeva l’autobus o varcava il portone della scuola, fino a privarlo del piacere di alzarsi dal letto e andare a incontrare il mondo. Come in un ideale contrappasso dantesco, l’assiduità con la quale una persona venne umiliata deve far posto all’assiduità con la quale si è indotti a fare i conti con le sue ferite (psicologiche) ancora aperte. Quotidianamente. Fino ad arrivare a provare vergogna, la più terribile delle vergogne, che è quella di avere fatto del male a chi non si poteva difendere. Soltanto allora si può tornare a vivere, a salvarsi, a dare un corso e un senso diverso alla propria esistenza di bullo, percepita ormai alla stregua di una colpevole idiozia, che chiede unicamente di essere lasciata alle spalle.