Arthur Miller (1915-2005) è stato un grande drammaturgo, ma talvolta sentiva il bisogno di una scrittura più libera, meno rigida di quella che imponeva il teatro. Si dedicava, allora, a scrivere racconti. A suo parere un genere letterario che pone vicino al lettore in maniera “amichevole e famigliare”. Una raccolta di questi racconti uscì nel 2007 con il titolo “Presence”. Alcuni sono stati ora tradotti in italiano e pubblicati da Einaudi. Vi si ritrova il clima dell’America anni Cinquanta e Sessanta e i ricorrenti temi, contrapposti, del sesso e della morte. Non senza ironia, c’è lo scrittore che per superare la crisi creativa scrive direttamente sul corpo di una ragazza reclutata attraverso un annuncio sul giornale. Oppure il generoso sogno (fallito) di un americano che, per aiutare il popolo haitiano, voleva installare ad Haiti una distilleria di trementina ricavata dalla resina dei pini locali. O l’inebriante scoperta del mondo degli adulti, rivelatasi a un ragazzino desideroso di adottare un cane bulldog e che viene sedotto da una donna appena conosciuta. Forse niente di autobiografico a meno che non si cerchi l’autobiografia di una storia, di sentimenti, di sogni che furono collettivi.
Vide questo brevissimo annuncio sul giornale: “Cuccioli di bulldog tigrati, 3 dollari l’uno”. Lui possedeva circa dieci dollari, guadagnati con il suo lavoretto di imbiancatura e non ancora depositati in banca, ma in famiglia non avevano mai avuto cani. Quando gli venne l’idea, il padre stava facendo un lungo sonnellino, e la madre, in piena partita di bridge nel momento in cui le chiese se per lei andava bene, alzò le spalle con aria distratta e giocò una carta. Lui passeggiò per la casa cercando di decidere, e fu invaso dalla sensazione che avrebbe fatto meglio a sbrigarsi, prima che qualcun altro si prendesse il cucciolo. Nella sua testa ce n’era già uno in particolare che gli apparteneva: era il suo, e la bestiola lo sapeva. Ignorava completamente che aspetto avesse un bulldog tigrato, ma a giudicare dal nome era un animale forte e meraviglioso. E lui aveva i tre dollari, anche se lo preoccupava il pensiero di spenderli in un periodo in cui c’erano tutti quei problemi di soldi, con il padre finito di nuovo in bancarotta. Il laconico annuncio non specificava quanti cuccioli ci fossero. Forse solo due o tre, che a quell’ora potevano essere già stati venduti.
L’indirizzo indicava un numero di Schermerhorn Street, una strada che non aveva mai sentito nominare. Telefonò, e una donna dalla voce roca gli spiegò come arrivare e con quali mezzi.
[…]
All’improvviso si accorse di essere arrivato a destinazione. Là fermo, si sentì mancare il terreno sotto i piedi e comprese che era tutto uno sbaglio, come uno dei suoi sogni o una bugia che avesse stupidamente tentato di difendere spacciandola per la verità. Gli venne il batticuore, si rese conto di essere arrossito e proseguì per circa mezzo isolato.
[…]
Ma doveva dare almeno un’occhiata al suo cucciolo, perciò torno indietro lungo l’isolato e suonò il campanello del pianterreno, seguendo le indicazioni ricevute dalla donna. Lo squillo fu talmente forte da farlo trasalire; d’altra parte, se fosse corso via e lei fosse uscita in tempo per vederlo, sarebbe stato ancora più imbarazzante, per cui rimase lì con il sudore che gli gocciolava sul labbro.
Si aprì una porta interna sotto il portico e venne fuori una donna che lo scrutò attraverso le polverose sbarre di ferro del cancello. Indossava una specie di vestaglia di seta rosa pallido, che teneva chiusa con la mano, e aveva lunghi capelli neri sciolti sulle spalle. Lui non osò guardarla dritto in faccia e così non sarebbe stato in grado di dire che aspetto aveva esattamente, ma percepì la sua tensione mentre lo fissava in piedi dietro il cancello chiuso. Si rese conto che non riusciva a immaginare perché avesse suonato e si affrettò a chiederle se fosse stata lei a mettere l’annuncio sul giornale.
Ah! Cambiò subito atteggiamento, sganciò il cancello e lo spalancò. Era più bassa di lui e aveva un odore strano, come un misto di latte e aria viziata. La seguì all’interno dell’alloggio, talmente buio che non si vedeva quasi nulla, anche se si sentivano gli acuti latrati dei cuccioli. Lei fu costretta a gridare per domandargli dove abitava e quanti anni aveva, e nel sentirsi rispondere che ne aveva tredici, si coprì la bocca con la mano e disse che era molto alto per la sua età; lui però non capì per quale motivo la cosa sembrasse riempirla d’imbarazzo, se non, forse, perché l’aveva preso per un quindicenne, come capitava a volte. Gli parve comunque una reazione esagerata. Continuò a seguirla fino in cucina, sul retro della casa, dove finalmente riuscì a guardarsi intorno, dopo aver trascorso qualche istante al riparo dal sole. In una grossa scatola di cartone, tagliata in modo irregolare per abbassarne i bordi, vide tre cuccioli insieme alla madre, che sedeva là fissandolo e muovendo adagio la coda.
A lui non sembrava che somigliasse a un bulldog, per quanto non avesse il coraggio di dichiararlo apertamente. Era solo una cagna marrone chiazzata di nero con qualche striscia qua e là, e i piccoli avevano lo stesso mantello. Gli piaceva la piega all’ingiù delle loro minuscole orecchie, ma disse alla donna che aveva voluto dare un’occhiata ai cuccioli, ma che non si era ancora deciso. A quel punto non sapeva proprio più che fare, e così, per non darle l’impressione di non averli apprezzati, le chiese se le dispiaceva che ne prendesse uno in braccio. Nessun problema, gli rispose lei; infilò una mano nella scatola, tirò fuori due cagnolini e li posò sul linoleum azzurro. Non sembravano affatto dei bulldog, ma si vergognava di spiegarle che in realtà non intendeva comprarli. Lei ne sollevò uno, disse: “Ecco qua”, e glielo piazzò in grembo.
[da “Bulldog” di Arthur Miller, in Presenza, trad. di Federica Oddera, Einaudi, 2017]