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Annie Ernaux, quando l’autobiografia è storia di tutti

Con i suoi scritti autobiografici, Annie Ernaux ci ha insegnato a leggere le vite dei singoli (e dunque anche la nostra) dentro la storia collettiva, nei contesti sociali, nei sentimenti della vita. La grande lezione della scrittrice francese – il saper combinare, appunto, storia ed esperienza individuale – ha molti argomenti e sempre mirati a capire la ‘verità’ dell’esistenza umana. C’è tutto questo anche nel libro che pubblicò nel 1987, dedicato alla figura di sua madre, ora uscito in italiano con il titolo “Una donna” (Edizioni L’Orma).  

Il racconto muove dalla morte della mamma, malata di Alzheimer e ricoverata in una struttura sanitaria. Dalla camera di quella casa di riposo inizia l’elaborazione del lutto da parte della figlia e la ricostruzione di una memoria che, ancora una volta, è individuale e corale. Uno spaccato di Novecento si racconta proprio attraverso la vita della madre, le sue umili origini contadine, la sua emancipazione, le molte traversie. E al contempo si scava nel rapporto madre-figlia, segnato da continua conflittualità, da un eccesso di amore materno (l’altra figlia era prematuramente morta), da tormentati distacchi e riavvicinamenti.

Sorprendente, fin dall’incipit, la prosa della Ernaux; asciutta, misurata, eppure così partecipe. Diciamo coerente con le sue intenzioni, laddove avverte esplicitamente: “Spero di restare al di sotto della letteratura”.

«Mia madre è morta lunedì 7 aprile nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise, dove l’avevo portata due anni fa. Al telefono l’infermiere ha detto: “Sua madre si è spenta questa mattina, dopo aver fatto colazione”. Erano circa le dieci.
Per la prima volta la porta di camera sua era chiusa. Le avevano già fatto la toilette, una fascia di tessuto bianco le stringeva il capo, passando sotto il mento, corrugandole tutta la pelle attorno alla bocca e agli occhi. Era coperta fino alle spalle da un lenzuolo, le mani nascoste.
Sembrava una piccola mummia. Ai lati del letto c’erano ancora le sbarre sistemate per impedirle di alzarsi. Ho voluto infilarle la camicia da notte bianca, orlata di merletto, che tempo prima aveva comprato per la sua sepoltura. L’infermiera mi ha detto che se ne sarebbe occupata un’inserviente, avrebbe pensato anche a posarle sul petto il crocefisso che era nel cassetto del comodino.
Erano venuti via i due chiodi che fissavano le braccia d’ottone sulla croce, l’infermiere non era certo di riuscire a ripararlo. Non aveva importanza, ciò che contava, per me, era che avesse il suo crocefisso. Sul carrellino c’era il vaso con i ramoscelli di forsizia che avevo portato il giorno prima. L’infermiere mi ha consigliato di recarmi subito all’ufficio di stato civile dell’ospedale.
Nel frattempo avrebbero inventariato gli effetti personali di mia madre. Non aveva quasi più nulla di suo, un tailleur, delle scarpe estive blu, un rasoio elettrico. Una donna si è messa a urlare, la stesa da mesi. Lei era ancora viva ed era morta mia madre, non lo capivo.
La giovane impiegata dello stato civile mi ha chiesto di cosa avessi bisogno. “Mia madre è deceduta questa mattina – All’ospedale o in lunga degenza? Qual è il nome?” Ha guardato un foglio e ha abbozzato un sorriso: era già al corrente. È andata a cercare la cartella clinica e mi ha fatto qualche domanda su di lei, il luogo di nascita, l’ultimo indirizzo prima di entrare in lunga degenza, tutte informazioni necessarie per completare il dossier.
Nella camera di mia madre avevano preparato sul comodino un sacchetto di plastica con le sue cose. L’infermiere mi ha porto la scheda dell’inventario per farmela firmare. Non ci tenevo più a prendere i vestiti e gli oggetti che aveva avuto lì, tranne una statuetta comprata tempo prima durante un pellegrinaggio a Lisieux con mio padre, e un piccolo spazzacamino savoiardo, souvenir di Annecy.
Ora che ero tornata, potevano condurre mia madre all’obitorio dell’ospedale senza aspettare che fossero passate le due ore regolamentari di attesa dopo il decesso.
Uscendo, ho visto dietro il vetro dell’ufficio del personale la signora che condivideva la stanza con mia madre. Se ne stava seduta lì, con la sua borsetta, la facevano aspettare fino al trasferimento di mia madre all’obitorio».

[da Una donna di Annie Ernaux, trad. di Lorenzo Flabbi, L’Orma, 2018]

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