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Anatomia di un racconto. Il racconto di Natale di Auggie Wren

Tra i racconti che ben si conciliano con questo periodo di festività, uno di quelli che preferisco è sicuramenteIl racconto di Natale di Auggie Wren”, soprattutto perché ritengo che sia – rispetto al particolare periodo dell'anno a cui si riferisce – del tutto originale. Non è il classico racconto di Natale in cui ci sono alberi addobbati, scampanellii, pacchetti regalo, ritorni in famiglia, occasioni di redenzione. Scritto da Paul Auster, fu pubblicato per la prima volta nel 1990 nell'edizione natalizia del New York Times, ma ispirò poi (cinque anni più tardi) la sceneggiatura del film “Smoke”, con Harvey Keitel e William Hurt, diretto da Wayne Wang proprio insieme allo scrittore americano.
 
Qui l'autore ci avvisa fin dal principio che la storia che ci racconterà non è sua, ma l'ha sentita da Auggie Wren, nome inventato per l'occasione su richiesta stessa di quest'ultimo. Ci anticipa dunque i fatti salienti, che tra poco andremo a scoprire: un portafoglio smarrito, l'incontro con una donna cieca, una cena di Natale. Poniamo adesso attenzione al punto di vista: in questo momento lo scrittore coincide con un narratore di primo grado (ovvero quello che comunica in maniera diretta con il lettore), mentre Auggie Wren rappresenta un narratore di secondo grado. A questo punto ci vengono fornite alcune informazioni, così per esempio veniamo a sapere da quanto i due si conoscano (undici anni) e che rapporto intercorra tra loro (Auggie Wren è semplicemente un tabaccaio, di cui lo scrittore è cliente), rapporto che un giorno in qualche modo prende un'altra direzione: il tabaccaio si imbatte in una recensione del libro del suo cliente, ed ecco che d'improvviso inizia a condividere con lui il progetto di una vita, mosso dalla scoperta di un'affinità artistica; Auggie infatti si diletta come fotografo, e da dodici anni scatta dallo stesso angolo e alla stessa ora del giorno una foto allo stesso tratto di strada. Conserva dodici album (uno per ogni anno) e un totale di più di quattromila fotografie, che ora intende mostrare al suo speciale cliente.
 
A un primo sguardo, tutte le foto appaiono identiche, e lo scrittore non afferra il senso dell'intero progetto, che risulta soltanto una “una fredda scarica di ripetizioni”. Ma su consiglio del tabaccaio lo scrittore rallenta, finché non ci suggerisce che “Aveva ragione, ovviamente. Se non ti prendi il tempo per vedere, non imparerai mai a guardare niente”. In questa frase semplice è racchiusa invece una saggezza popolare, di quelle che riesci a cogliere solo dopo un errore. Da questo momento in poi, il cliente presta maggiore attenzione ai dettagli e inizia a far caso ai cambiamenti, fino a notare anche quelli più piccoli, più trascurabili per uno spettatore poco interessato: cambiamenti di clima, di luce, di traffico. Addirittura riesce a riconoscere i volti dei passanti in quella strada. Soprattutto si accorge di non essere più annoiato mentre sfoglia gli album, che in maniera superficiale aveva giudicato tutti identici e irrilevanti.
 
Non siamo neanche a metà racconto e già è accaduto qualcosa di importante tra due persone. Ma ecco che l'autore sta per svelarci come Auggie si è procurato la macchina e ha iniziato a fotografare. Quando gli viene commissionata una storia di Natale dal New York Times, si trova ad affrontare una crisi personale, convinto di non esserne capace e temendo di dar vita all'ennesima storia sentimentale. Così un giorno si sfoga col suo tabaccaio, che subito intercetta la sua necessità e si offre – in cambio di un pranzo – di raccontargli la miglior storia di Natale che abbia mai sentito. Da qui in avanti abbiamo una storia nella storia, dato che Auggie prende la parola e comincia a raccontare, divenendo lui il narratore di primo grado, per poi tornare a dialogare con lo scrittore solo nel finale. Soltanto dopo aver ascoltato come si è svolta tutta la faccenda (che non svelerò, ma che vi invito a leggere…), allo scrittore viene in mente che Auggie possa aver inventato ogni cosa, ma un attimo dopo dice queste parole, che sono la base di ogni buon patto narrativo: “Sono stato convinto a crederci e questo era l'unica cosa che contava. Fino a che c'è qualcuno che ci crede non esiste storia che non può essere vera”. Insomma, la sospensione dell'incredulità: che tu la stia leggendo, ascoltando da qualcuno o vedendo al cinema, interrompi le tue facoltà critiche e goditi la storia. E a proposito: godetevi pure le feste, per quanto quest'anno vi sia consentito.
 

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