In una delle prime lettere indirizzate alla figlia del barone d’Etange, in Giulia o la Nuova Eloisa, il precettore Saint-Preux le confessa che, da quando l’ha conosciuta, non riesce più a stare fermo: “Corro, m’inerpico, mi slancio sugli scogli; percorro a grandi passi tutti i dintorni, e dappertutto trovo nelle cose l’orrore che regna dentro di me”. L’amore, l’amore che fa battere il cuore a colpi d’ascia, – Rousseau lo sapeva bene – rende inquieti a ogni età e a ogni età resta un problema. Anche la paura di non venire accettati (o di smettere di venire accettati) dal gruppo, specie nel corso dell’adolescenza, rende inquieti. Lo stesso pensiero del futuro, infine, in particolare quando questo si annuncia carico di dubbi, di interrogativi, di minacce, rende inquieti. Non ci si deve meravigliare, di conseguenza, se l’inquietudine costituisce un tratto caratterizzante i nostri giovani, dal momento che sono proprio l’amore, il gruppo, il “confidente immaginar” (lo sporgersi sul domani) a contrassegnare più marcatamente questa fase della vita. Non solo.
L’inquietudine è strettamente connessa al desiderio, secondo un rapporto di reciprocità (già sottolineato da Leibniz), per cui si può affermare, con Salvatore Natoli, che “l’uomo è inquieto perché desidera” e, nello stesso tempo, “desidera perché è inquieto”. E quando, se non durante l’adolescenza e la giovinezza, più forte è la spinta del desiderio? Quando più intensa è la sensazione di una potenza che ci oltrepassa, ci destabilizza, ci domina più di quanto noi possiamo dominarla? Eppure, l’inquietudine non deve essere pensata per i giovani necessariamente come un male. In essa, infatti, risiede – può risiedere – anche la loro salvezza, se è vero che la delusione che succede al mancato conseguimento dell’oggetto del desiderio molte volte, anziché tradursi in apatica rassegnazione o dolente frustrazione, è in grado di trasformarsi in volontà di miglioramento. Ma perché questo avvenga, perché un fallimento non venga interpretato e vissuto come la prova certa e incontrovertibile di un destino di perenne esclusione (da ciò che si ama, da ciò cui si aspira, da ciò che si insegue), occorre sostenere e rafforzare l’autostima del giovane. Per farlo, si deve uscire dall’ottica dominante, che esige che gli uomini vengano definiti in base a quello che fanno e non a quello che sono, in base alle prestazioni e non a quel variegato arcipelago di emozioni, intenzioni, proiezioni, che si sottraggono a ogni tentativo di misurazione e di quantificazione. Impresa ardua, certo, dal momento che la contemporaneità né conosce né promuove una cultura della sconfitta, i cui doni sanno essere più preziosi – sicuramente più puri – di quelli della vittoria, almeno quando l’insuccesso è originato dalla fedeltà a se stessi e ai propri principi e quando viene mostrato (ad esempio dai genitori ai figli, dagli insegnanti agli alunni) come una caduta, una delle tante, che accompagnano, ma non esauriscono, il cammino della crescita e dell’esistenza. Impresa difficile, indubbiamente, poiché la scuola secondaria superiore è ormai scaduta – compresi i licei – a mera preparazione all’Università, al punto che alcuni test di ammissione si tengono prima che l’alunno abbia completato l’ultimo anno di studi; senza tacere poi il fatto che tante sono le ore erose dall’alternanza Scuola / Lavoro alla lettura in classe di quei testi, che aiuterebbero a far capire agli adolescenti che le parole “consumatore”, “produttore”, “vincitore” non esauriscono né mai esauriranno le infinite possibilità dell’essere umano, anzi, spesso ne riflettono l’aspetto più misero e prosaico, oltre che più arido e convenzionale.
Fino a quando, però, si continua a guardare ai giovani come a degli adulti imperfetti e incompleti, la cui crescita deve essere il più rapida possibile (il moderno culto della velocità) e, soprattutto, deve concludersi con l’uniformarsi al paradigma di efficientismo dominante (che non ammette sbagli e indugi), l’inquietudine adolescenziale è destinata ad essere giudicata alla stregua di un fastidio, di una perdita di tempo, di un malessere – se non di un male – sul quale occorre intervenire con decisione e in tempi brevi. Ma le cose non stanno affatto così, poiché un ragazzo di quindici, sedici, vent’anni non è “un adulto in potenza” – a meno che non ci si voglia limitare al semplice dato anagrafico – ma è qualcosa di radicalmente altro. Jean Cocteau lo aveva pienamente compreso, tanto da scrivere ne La difficoltà di essere: “L’infanzia sa quello che vuole. Vuole uscire dall’infanzia. Il disagio incomincia quando ne esce. Perché la gioventù sa quello che non vuole, prima di sapere quello che vuole. Ora quello che non vuole, è quello che noi vogliamo”. Sapere quello che non si vuole diventare lascia ancora sussistere una molteplicità di possibilità, la quale fa sentire i giovani splendidamente liberi e necessariamente inquieti (“Chi sarò, che farò io domani?”), ma che, soprattutto, li rende profondamente diversi dagli adulti, i quali le loro scelte le hanno già compiute, le loro strade le hanno già imboccate, e, ormai all’àncora nel porto, contemplano con fastidio e senza più memoria il mare aperto.