È proprio dei grandi poeti racchiudere nel giro di pochi versi una verità o un destino. Né la forma interrogativa in Michelangelo (“chi mi difenderà dal tuo bel volto?”) né l’impiego dell’avverbio “forse” in Penna (“Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi”), nulla tolgono all’evidenza di quanto asserito a proposito, rispettivamente, della forza irresistibile dell’amore e della sensualità accesa dell’adolescenza. Lo stesso avviene con l’incipit di un celebre sonetto di Dante, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, dove il tricolon (“tu e Lapo ed io”) e il modo condizionale del verbo (“vorrei”) bastano a suggerire due degli elementi costitutivi del sentimento d’amicizia: la pluralità – laddove l’amore è legato alla coppia – e l’atmosfera magica e incantata che suscita. Non è certo un caso che gli studenti annoverino questo componimento tra i testi più belli letti nel corso del terzo anno delle scuole superiori: a tal punto lo sentono loro, vi si riconoscono, lo amano.
L’amicizia, d’altra parte, è, tra i sentimenti, quello che meno è cambiato nella considerazione delle persone. Molto spesso viene fatto notare che all’interno della civiltà greca e latina essa costituì un valore assolutamente centrale, prima che il cristianesimo la sostituisse con l’ideale della charitas. Ciò è vero, ma la questione è meno semplice di quanto non appaia a prima vista. Il fatto che l’amore rivolto indistintamente e in maniera disinteressata a ogni creatura umana (in questo consiste la charitas) sia stato ritenuto, nell’ottica della salvezza eterna, più nobile e più importante dell’affetto che proviamo per chi conosciamo bene, che frequentiamo con assiduità, che è presente negli snodi cruciali della nostra esistenza, non significa affatto, però, che l’amicizia sia stata esperita e vissuta in epoca medievale o nel corso del Rinascimento o in età moderna con minore trasporto e intensità rispetto all’antichità classica: per convincersene, è sufficiente leggere quanto scrive Montaigne di La Boétie nei suoi Saggi (I, 27, 290-291).
Sotto questo aspetto, l’autentica cesura si ha (si avrebbe) con la contemporaneità, che ha (avrebbe) sostituito l’amicizia “virtuale”, legata al mondo dei social network, all’amicizia “reale”. Anche in questo caso le cose stanno un po’ diversamente da come sembri a un primo sguardo. Prendiamo Facebook. Sicuramente ha ampliato a dismisura la platea dei conoscenti ma non ha determinato né l’aumento né la diminuzione degli amici. Questi, pochi o tanti che siano, restano altra cosa e, soprattutto, continuano a suscitare pensieri, moti del cuore, atteggiamenti, azioni, che nulla hanno da invidiare a quelli di cui si fecero interpreti Archiloco, Alceo, Platone (che all’amicizia dedicò uno dei suoi dialoghi, il Liside), Aristotele (si vedano, in particolare, l’ottavo e il nono libro dell’Etica nicomachea), Cicerone, Catullo, Orazio. E se ciò è vero per i quarantenni, lo è ancora di più per gli adolescenti. Le amicizie che nascono dietro i banchi di scuola non solamente durano e confortano – formano una delle poche certezze rimaste all’interno di un’esistenza inquieta e mutevole –, ma anche riscaldano e inebriano. La progressiva conquista di spazi e di tempi propri, vale a dire non più scelti né gestiti dai genitori, l’apertura al mondo degli altri, l’irrompere di quelle figure simboliche alle quali il filosofo Galimberti ha dedicato un capitolo del suo saggio L’ospite inquietante (espansività, coralità, gioco, utopia, viaggio, esplorazione, sfida, riappropriazione, ricostruzione, rivelazione) costituiscono altrettanti fattori di socializzazione che si pongono al di là delle mode e dei tempi e che rendono la cerchia degli amici, oggi come ieri, necessaria e insostituibile. Sotto questo aspetto, l’augurio espresso da Apollinaire agli inizi del Novecento nella poesia Il gatto resta attualissimo: “In casa mia mi auguro di avere: / Una donna che sappia ragionare, / Un gatto che passeggi fra i libri, / Amici in tutte le stagioni / Senza i quali non posso vivere”.