Creaturalità è parola di cui la maggior parte dei giovani ignora il significato. Magari hanno confidenza con termini come creatura, creatore, creato, ma non con creaturalità. A meno che qualcuno di loro non si sia imbattuto a scuola nelle considerazioni che il grande filologo tedesco Eric Auerbach svolge, in “Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale”, sugli Essais di Montaigne e su quello che ne costituisce il contenuto di fondo, vale a dire la condizione umana. Ma tenuto conto che tale ipotesi sembra essere alquanto remota, ne consegue che il senso della parola creaturalità resta precluso a tanti ragazzi e a tante ragazze.
Eppure vivere significa fare i conti quotidianamente con i limiti imposti dalla creaturalità, e se questo è vero per l’uomo maturo e per l’anziano, forse lo è ancora di più, almeno a livello psicologico, per l’adolescente. Cosa significa, infatti, creaturalità? Significa inadeguatezza, percezione del mistero nei confronti dell’Essere, finitezza, essere soggetto alla sofferenza e alla morte. In una parola, fragilità. Ed è proprio da questa fragilità – sostantivo che rimanda al latino fragilitate(m), dalla stessa radice del verbo frangere “spezzare, frangere, rompere” – che occorre ripartire per arrestare il dilagare nella nostra società dell’egoismo e dell’individualismo esasperato. Essere consapevoli, infatti, che l’uomo altro non è, per riprendere la celebre immagine di Blaise Pascal, che “una canna, la più fragile di tutta la natura”, costituisce il punto di partenza per una migliore e più sincera conoscenza di sé e per una reale e solidale apertura all’altro-da-sé: solamente chi ha il coraggio di guardare in faccia la propria vulnerabilità, evitando di addomesticarla o, peggio, di rinnegarla, è in grado di astenersi dall’aprire, con parole, con atteggiamenti, con azioni, nuove ferite – o dall’esacerbare quelle vecchie – in coloro che gli stanno accanto. È questo, in sintesi, anche il grande insegnamento di Leopardi: amare le cose, amare gli uomini, non perché perfetti, ma perché fragili, destinati, cioè, a spezzarsi, a sbagliare, a smarrirsi.
Ma se da sempre l’adolescenza è l’età solcata dalle contraddizioni, dalle domande sul senso del vivere e del morire, dalla metamorfosi (del corpo, del modo di radicarsi nel mondo), dall’aspirazione all’assoluto che esclude convenzioni e compromessi, tutti tratti costitutivi, questi, che si possono facilmente convertire in altrettanti fattori di crisi, di dubbio, di insicurezza, la trasformazione del contesto culturale ha reso oggi questa fase della vita ancora più difficile da attraversare e da superare. Infatti, mentre nell’uomo greco e nell’uomo cristiano non appare mai messa in discussione la propria immedicabile finitezza, dunque la propria creaturalità, la modernità e la contemporaneità si presentano all’insegna, invece, complice lo sviluppo della tecnica, dell’oltrepassamento del limite. Ma dove l’oltrepassamento del limite non solo è possibile, ma anche auspicato e celebrato, là l’essere fragile, il rimanere, cioè, costantemente al di qua del “confine” – è questo il significato del termine latino limes, da cui discende l’italiano “limite” – è una condanna e una colpa. All’interno di un contesto sociale dominato dall’etica del profitto e da messaggi pubblicitari che celebrano l’efficientismo, la sicurezza, la determinazione, la bellezza, l’adolescente – ma anche colui che sta fra adolescenza e postadolescenza – finisce col guardare alla propria ansia, alla propria timidezza, alla propria incertezza, come a emozioni anomale e pericolose, che lo espongono allo sguardo indagatore e malevole di chi, invece, pare incarnare alla perfezione i paradigmi dominanti.
E così il giovane finisce col vergognarsi: “ci si vergogna – ha osservato lo psichiatra Eugenio Borgna – di pensieri, di immaginazioni e di comportamenti che si rivivono come colpevoli; ma ci si vergogna anche al di fuori di qualsiasi colpa commessa: come espressione di insicurezza interiore, di timidezza, di timore di non sentirsi all’altezza di una situazione”. Da qui, in famiglia come a scuola, discendono il rossore del volto e certi silenzi impenetrabili, da qui derivano la paura di osservare e quella di essere osservati, paura che molte volte altro non è che il prodromo del rinchiudersi nella propria stanza, al riparo da tutti e da tutto. Eppure, la verità dell’esistenza riposa tutta nel riconoscimento che siamo creature fragilissime – lo siamo a sedici come a quarant’anni, indubbiamente in maniera diversa –, troppo simili all’idrometra, l’insetto dalle zampe sottilissime che si muove sul pelo dell’acqua e al quale Giorgio Caproni ha dedicato una sua bellissima poesia ne “Il muro della terra”, per non guardare con sospetto e con fastidio a ogni acritica esaltazione della condizione umana.