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Ad Auschwitz non ci sono bambini. La testimonianza di Thomas Geve

PAROLE X 7 GIORNI. DIAMO UN VERSO ALLA SETTIMANA
 
Hanno forse ragione quanti sostengono che la Shoah è inenarrabile. Tanto è l’atroce paradosso in cui sprofondò la storia del Novecento che non può essergli offerta dignità letteraria. Ma è pur vero che non se ne può perdere memoria e che un racconto debba essere comunque tramandato. Magari con testimonianze come quella di Thomas Geve, sopravvissuto ad Auschwitz dove venne deportato a soli tredici anni assieme alla madre che non rivide più. Nel suo libro “Qui non ci sono bambini” (Einaudi) sono raccolti i disegni che da ragazzino fece ad Auschwitz: ingenui, essenziali, drammatici. Storyboard di una tragedia vista con gli occhi di un tredicenne.
 
Avevo tredici anni quando fui mandato ad Auschwitz con mia madre. Era la fine di giugno del 1943. Poiché dimostravo più della mia età, ebbi la fortuna di essere considerato abile al lavoro. I bambini sotto i quindici anni erano inviati direttamente alla camera a gas. A parte un altro ragazzo, uno zingaro di nome Jendros, allora ero il più giovane dei 18000 internati nel campo di Auschwitz. Avevo il numero di matricola 127003. Mia madre fu mandata a Birkenau e lavorava alla fabbrica «Union». Purtroppo non sopravvisse. Dopo l'evacuazione di Auschwitz sono stato nel campo di Gross-Rosen, nel gennaio del 1945, e poi a Buchenwald, dove sono stato liberato l'11 aprile 1945. Prima di quel giorno non avevo mai conosciuto la libertà. Ero gravemente debilitato e avevo perso le unghie dei piedi per l'attrito contro gli zoccoli di legno e per la denutrizione. Troppo malridotto per lasciare la mia baracca, il blocco 29, quello dei prigionieri antifascisti tedeschi, vi rimasi più di un mese dopo la liberazione del campo. Fu allora che eseguii una serie di settantanove disegni miniaturizzati, a colori, delle dimensioni di una cartolina, per illustrare i vari aspetti della vita in campo di concentramento. Li feci essenzialmente con l'intento di raccontare a mio padre la situazione così com'era realmente stata. […] Quando le mie orecchie percepiscono sonorità che rievocano i due inverni gelidi, rudi, pericolosi, trascorsi nel campo di Auschwitz, mi salgono le lacrime agli occhi. Non per il ricordo degli ordini gridati dai kapo e dai guardiani delle SS, ma per quello delle melodie suonate dai miei compagni di sventura, dei cori di prigionieri russi, dei violini zigani, delle melopee ebraiche… A commuovermi è soprattutto una vecchia registrazione di “Soldati delle paludi”, cantato già nel 1936 in Spagna dalla Brigata internazionale. Ascoltandolo, penso ai miei compagni del campo di concentramento che in gran parte morirono prima della liberazione, e ai sopravvissuti, molti dei quali non sono più fra noi. Per l'inaugurazione della mostra dei miei disegni, al Memoriale di Buchenwald venne dato un concerto durante il quale due ragazze di Weimar eseguirono “Soldati delle paludi”. Di quel gesto sarò per sempre riconoscente. Durante la cerimonia feci questo discorso: «Caro pubblico, vi ringrazio di essere disposti, cinquant'anni dopo, a compiere un viaggio a ritroso per contemplare questo lungo cammino. Ciò che vedrete è forse arte ingenua, pittura mediocre, una semplice illustrazione dei fatti, insomma, non so cosa sia. Allora avevo tentato di rappresentare le cose su uno sfondo simmetrico – cerchi, triangoli, diagonali, curve, ecc. Vi prego, sostenete i nostri sforzi intesi a preservare la verità della storia contemporanea, almeno per i prossimi cinquant'anni».
 
[dalla Introduzione di Qui non ci sono bambini. Un'infanzia ad Auschwitz di Thomas Geve]  

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