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Nelle raffigurazioni del tempio di Giunone a Cartagine Enea scorge effigiati alcuni drammatici episodi della guerra che ha affrontato in patria. Su quelle istantanee – osserva l’eroe – stanno, sì, i giusti premi di gloria per gli atti di valore, ma anche le lacrime inerenti a quei fatti. E simili sventure che travolgono i mortali (ciclicamente: ne sappiamo qualcosa) toccano il cuore. È il celebre verso
dell’Eneide (I 462) sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt.
La prima poesia registra il compasso di questa nuova silloge di Lorenzo Monticelli:
Le lacrime delle cose, raccoglierle,
questo il suo destino, si accorse,
nel suo crepuscolo:
vedere negli occhi dei cani
il calore del pianto,
nel fiorire dei frutti
l’amaro dell’autunno,
quando il vento scuote la terra
e galleggiano, mossi dalle onde,
i corpi dei morti, lividi e sordi;
per avere giustizia non basta il canto.
Con la fiducia nel «canto», nelle «parole», convive la rassegnazione al fatto che questa pseudo-consolazionecerto non basta a riscattare le iniquità. Ora il palcoscenico di questa esistenza elevata alla potenza del dolore è tutto delle lacrimae rerum, delle infinite piccole e enormi tribolazioni senza compenso o significato alcuno. Ma la (leopardiana) forza con cui questa sofferenza viene trattata fa sì che intervenga la bellezza a riscattarne un poco il dolore. (dall’introduzione di Alessandro Fo)
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