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Nata a Roma nel 1942 da famiglia ebraica (materno il tipico cognome stanziale del ghetto romano, ungherese quello paterno da un piccolo “shtetl” di un angolo sperduto di quella nazione), vive i suoi primi 45 anni in una superficiale indifferenza delle sue vere radici, aiutata dal complice silenzio dei suoi genitori. Un’omertà superflua a volte anche sulle cose più banali. Sempre meglio tacere, fingere, non sapere. Ignorare. “Normale” commenta Stefania “ mi parve allora non avere mai evitato di voltare le spalle a me stessa”. Solo in seguito ad una tragedia che la colpisce nei suoi affetti più cari (il figlio) intraprende un obbligato viaggio di ritorno per cercare di capire le ragioni di un profondo male di vivere che da sempre l’accompagna. Lascia senza rimpianti il suo lavoro legato alla moda, svolto per tanti anni in un negozio al centro di Roma, e inizia un percorso di studio all’Università la Sapienza, laureandosi alla facoltà di lettere in “Archeologia del Vicino Oriente”. Ai primi di dicembre del 1995, un mese dopo l’omicidio di Yitzhak Rabin, decide improvvisamente di andare per qualche giorno da sola a Gerusalemme. All’aeroporto di Fiumicino, mentre inganna l’attesa del volo diretto a Tel Aviv sfogliando un compendioso volume intitolato “Mistica Ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo” a cura di Giulio Busi ed Elena Loewenthal, viene fermata da una giovane donna, in cui inaspettatamente si materializza proprio la curatrice di quella eccezionale antologia. Inizia lì, nell’attesa all’aeroporto in una grigia giornata, un colloquio affiatato proseguito nei giorni successivi a Gerusalemme. Colloquio che la scrittrice Elena Loewenthal riversa sapientemente nel libro”Lo strappo dell’anima” con cui vince nel 2000 il premio Grinzane Cavour come narratrice esordiente. Nel retro della copertina del libro Elena ha scritto
“Questa è una storia vera, che ancora mi brucia la schiena, quando la penso invece di provare a raccontarla. E’ una storia vera da cima a fondo, che un fondo ancora non ha perché le storie vere non finiscono mai, dacchè mondo è mondo, di generazione in generazione”
“Non potevo sapere quanto queste parole fossero profetiche visto che purtroppo nei dieci anni successivi il malessere dell’identità negata si è diffuso a macchia d’olio intorno a me, colpendo nei modi più inaspettati anche mia sorella e la sua famiglia. Ho seguito quindi la spinta di continuare, con ben minore maestria, questa difficile storia umana, una fra le tante che sconquassano l’umano vagare, cercando di spiegare come l’inconscio lungamente represso e vissuto come una vergognosa verità da nascondere sia inesorabilmente emerso, strappando incurante le diverse maschere che i suoi personaggi avevano man mano inutilmente indossato”. Stefania Grosz
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