Oggi voglio parlarti della gentilezza. Ma non mi occuperò di cortesia, buone maniere, convenevoli o galateo. Comincerò invece col dirti che la gentilezza non è un sentimento, che ciascuno può coltivare anche solo dentro di sé, senza manifestarlo al di fuori. La gentilezza è una modalità della relazione, che ha bisogno di essere praticata. Ed è una modalità di confne, che può rivelarsi nella condivisione, nella solidarietà, nell’amicizia. È riconoscimento della comune vulnerabilità, del comune destino. È in questa estensione che m’interessa prenderla in considerazione qui. L’esercizio della gentilezza rappresenta nel mondo contemporaneo un atto etico, un modo di andare contro corrente, in un certo senso un comportamento antisociale – non a-sociale, bada bene – nel momento in cui questa società mostra di fondarsi su valori opposti: sul rumore, la fretta, la distrazione, l’arroganza, la prepotenza, il disinteresse, il cinismo, l’aggressività. La gentilezza è azione, una presa di distanza critica da quei disvalori, l’esercizio consapevole di una protesta, è rifuto della riduzione delle relazioni umane al modello delle relazioni con le cose. Credo che mai come oggi trasgredire signifchi abbracciare e praticare questi valori antisociali, giacché gli altri, quelli negativi che ho elencato, non costituiscono trasgressione, ma l’esatto contrario, un perfetto adeguamento ai modelli “in commercio”, vale a dire: conformismo. Anche a trasgredire occorre imparare. Quando pratichiamo consapevolmente la gentilezza, usciamo dalla condizione di indistinti uomini-massa, di gregari, e ci affermiamo come individui, ciascuno come questo individuo peculiare che, pur potendo non esserlo, ha compiuto una scelta, ha scelto di essere gentile in un mondo che fondamentalmente non lo è.