Di questi versi si può dire ciò che Samuel Johnson scriveva di John Donne nel 1777, «versi da sostenere meglio la prova delle dita che quella dell’orecchio», così ricorda Giorgio Melchiori [mio illustre docente quando ero studente a Cà Foscari, Venezia, primi anni Settanta] nella prefazione a John Donne, [Liriche sacre e profane, Milano, Mondadori, 1983, p. LXVI]. Non va tuttavia sottaciuto che l’orecchio qui non viene del tutto trascurato, a cominciare dalla rima che racchiude foneticamente tutti i distici, per finire con gl’incastri sonori che si rincorrono all’interno dei versi. La loro lunghezza non è volutamente definita, varia e spazia sul bianco del foglio secondo l’esigenza metrica del singolo componimento, mantenendo come punto fermo la stessa numerazione sillabica per ambo i versi di ogni distico. […]. Il distico di per sé invita alla stringatezza, per questo ho cercato di bandire il superfluo, il fronzolo e concentrarmi, questo è proprio il verbo più consono, sull’essenza testuale senza rinunciare “a bilanciarmi sull’ambiguo gioco della parola” come sentenziava il Gian Pietro Lucini delle Revolverate. Se Stendhal suggeriva di partire da un fatto di giornata, io ho optato invece, come punto di partenza, per la parola stessa, come aveva già detto e fatto Raymond Roussel. In ogni distico la scintilla ispirante viene provocata da quella inesauribile musa che appare sotto forma di parola ad hoc, tale parola resta la guida e il fine del distico stesso.
Enzo Minarelli