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Tra posia e rap, i ritmi del Pirata Zatarra solcano i mari musicali senesi

29/10/2012

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Parole che si combinano, con una metrica e con delle figure retoriche del tutto particolari in una forma moderna e speciale di poesia. Ma non solo. La base è il “tun/cha/tun-tun-cha” che per chi non s’intende di musica si chiama tecnicamente “barra”. Sedici barre formano una strofa con cui legare, incastrare, abbinare versi, parole e storie. È la musica rap, fenomeno mondiale nato nei ghetti delle metropoli statunitensi ed oggi diffusissimo ovunque dall’Europa all’Italia, arrivando infine anche a Siena. Nella Città del Palio c’è una realtà, il Laboratorio "Lo StRAPpo", che rappresenta il primo studio multietnico del genere dove giovani aspiranti rappers e beatmakers possono apprendere le prime nozioni del rap come scrivere in rima, usare metriche particolari, perfezionare il proprio flow, produrre una strumentale e molto altro. Il direttore è lo stakanovista Zatarra, detto anche Zat, al secolo Marco Ottavi. “Chi è Zatarra? Non lo so, non so”, recita una delle sue canzoni. In realtà Marco Zatarra è una notissima voce di Radio Siena e Radio 3 Network, ma anche rapper di fama internazionale che divide la sua vita tra Siena e Marsiglia dove i suoi testi e il suo flow sono apprezzatissimi come del resto in tutto lo Stivale: il suo ultimo album “Piena consapevolezza” (info su www.zatarra.eu) sta riscuotendo un grandissimo successo.
Per Zatarra il Pirata, soprannome che un amico dell’Istrice dette a Marco vista la sua straordinaria somiglianza con il protagonista della trasposizione video de “Il Conte di Montecristo” (nel film Zatarra è lo pseudonimo con cui Edmond Dantes fugge dalla prigione vestito da pirata, non presente nel libro di Dumas, ndr), “L’incontro con il rap è stata una folgorazione – racconta -, arrivata peraltro dopo aver visto un graffito di un writer a Siena tra Via Marciano e Viale Cavour. Eravamo agli inizi degli anni ’90 e da lì è nata la mia grande curiosità per l’universo hip hop statunitense, che è cresciuta dopo le uccisioni di Tupac e Notorious B.I.G. che rappresentavano in quel genere musicale il gangsta rap, quello che non aveva niente a che vedere con delle appartenenze, quello della lotta delle black panthers americane per fare degli esempi”.

Cos’è il rap?
“Soprattutto è uno strumento di comunicazione che nasce per dire cosa non va nella società. Parla di temi come razzismo, delle realtà più disgreganti a livello sociale. Ed è anche per questo che si basa molto sui testi. Agli albori del rap si utilizzavano i “bianchi” delle canzoni soul e pop e attraverso i registratori si ripetevano in modalità loop. Da lì è nato il cosiddetto beat che rappresenta la parte musicale del rap”.

Pochi termini che ci fanno capire come il linguaggio rap sia una realtà a se stante, quasi un’isola, un microcosmo. Come è arrivato anche da noi?
“È partito ovviamente dai rappers afroamericani e si è spostato poi anche in Europa. In tutte le parti del mondo quindi dove si percepiscono fortemente fenomeni come immigrazione e disgregazione sociale. In Francia, dove già si parla di quarta generazione, è un retaggio culturale molto presente, così come in Germania. In Italia ha preso piede dall’occupazione dell’Università di Bologna, nella Facoltà di Lettere per esempio: Neffa suonava la batteria e tutti cantavano e ballavano su quel ritmo inserendo racconti di vita personale. In linea generale il rap attecchisce dove c’è un terreno molto fertile in ambiti di socializzazione. Porta con sé la cultura positiva del ghetto, che è avere una comune origini e un’uguale appartenenza in un mondo che ti mette in secondo piano. C’è un grande senso di riscatto in tal senso. È la parola che vince su tutto per favorire l’integrazione sociale”.

Come definiresti il linguaggio rap?
“Credo che per prima cosa, sarebbe interessante introdurlo anche come mezzo didattico nelle scuole o in particolari laboratori linguistici. Non si limita a fare una rima baciata in fondo al quattro quarti musicale. Ha una sua metrica, delle figure retoriche, delle regole da seguire sul piano tecnico. Quello che vorrei che venisse capito, anche dai docenti scolastici più retrogradi, è che è la trasposizione moderna di quella poesia che usavano gli aedi greci per raccontare e cantare Omero. Ma non è proprio poesia. Non è nemmeno una filastrocca, né una fiaba, sebbene raccolga tutto di questi generi fondendoli insieme. Il risultato? Raccolta la realtà, finalità primaria che ha scaturito la nascita del rap”.

Andrea Frullanti

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