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Quando Charles Dickens, verso la metà dell’Ottocento, attraversò le Crete senesi, rimase negativamente colpito da quei luoghi “desolati e selvaggi” che tanto assomigliavano allo “squallore e alla solitudine delle brughiere scozzesi”. Una trentina d’anni prima, in un freddo inverno del 1817, vi era transitato Stendhal e pure lui registrò sul suo taccuino di viaggio la veduta di un “seguito di collinette vulcaniche, coperte di vigne e di bassi olivi” per concludere che mai aveva trovato “niente di più brutto”. Sarebbe, dunque, dovuto passare del tempo e nascere una diversa idea di paesaggio prima che la penna poetica di Mario Luzi (e di altri scrittori) parlasse di quelle stesse lande come di un paesaggio dell’anima. Una terra che, diceva giustappunto Luzi, “eccita ed alimenta la condizione enigmatica dell’uomo; la rappresenta e l’asseconda”. Perché – sempre secondo il poeta – ciascuno di noi “ha dentro sé perplessità dense di mistero che qui trovano un luogo”.
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