Gli anni settanta, l’eroina, la provincia, una bambina. Storie che si intrecciano, nell’ultimo libro di Vanessa Roghi “Piccola città”, che l’autrice presenterà venerdì a Siena, alle 19, alla Corte dei Miracoli, in via Roma. La città è Grosseto, la Kansas City di Luciano Bianciardi, quella “tutta periferia, aperta ai venti ed ai forestieri”, che proprio in quegli anni si trasforma e perde la sua “apertura”. È lo specchio di una provincia che si chiude in sé stessa, che dagli anni del benessere cambia pelle, diventando un paesaggio fatto di solitudini e diffidenze, nel quale l’arrivo dell’eroina avrà un impatto devastante. Il libro ripercorre l’epoca, anche attraverso i ricordi personali dell’autrice, che racconta il tempo della sua infanzia e della sua adolescenza, trascorse proprio a Grosseto, tra le vie del centro e la spiaggia, in estate. La dipendenza che entra nella sua vita, quando è ancora bambina, è quella che riguarda suo padre. Ma nel libro sono tante le voci che si raccontano, vicende che si somigliano e si sfiorano, che dialogano tra loro. Testimonianze che hanno, a volte, uno sfondo soltanto appena accennato, storie che potrebbero essere avvenute ovunque. Forse lo sono. Storie di marginalità, di dipendenza, di sconfitta, ma anche di rinascita, raccontate da chi è sopravvissuto. Senza mai cedere alla retorica o al pietismo, il linguaggio dell’autrice resta aderente a un racconto che apre una riflessione profonda su un periodo storico solo apparentemente lontano, nel ripercorrere il quale il libro svolge un compito importante, ovvero quello di storicizzare la vicenda in modo netto. E lo fa oggi, in un momento in cui si registra un drammatico ritorno dell'eroina.
È questo che ti ha spinta a scrivere oggi questa storia?
In realtà, è un progetto che nasce da lontano. Ho impiegato tanti anni a scriverlo, perché ho atteso molto tempo per cercare la forma. Cercavo un saggio, ma volevo che ci fosse anche la mia storia. La mia era un’operazione storiografica, perché prima di tutto sono una storica, e poi invece è diventato drammaticamente un testo di attualità. E mi fa disperare, perché non avrei mai voluto che lo fosse.
La ‘Piccola città’ di oggi appare profondamente mutata, distante e quasi irriconoscibile da quella che si apre al vento e agli stranieri di Bianciardi. Cosa le è successo?
Una storia simile a quella di tante altre città, che passano dagli anni del benessere, in cui è più facile essere accogliente, agli anni della crisi, che diventa paura e chiusura. Grosseto, terra di immigrazione da sempre, non ha mai trovato risorse diverse. E così, questa Maremma piena di aria rischia di diventare un luogo asfittico. E questo fa davvero tristezza.
Poi c’è la tua vicenda personale. Quanto spazio hai concesso alla finzione narrativa?
Nel mio lavoro la finzione non c’è per niente. Non c’è niente che non sia vero. È la mia vita, come l’ho vissuta io. Mio zio una volta mi ha detto ‘ho vissuto la storia come te e in modo completamente diverso, ma è legittimo che tu la racconti così’. Il fatto che un pensiero come questo sia venuto da una persona della mia famiglia è importante. Il mio è stato un lavoro di ricostruzione memorialistica, nessuna autofiction. Da tanti anni scrivo documentari, per cui ho ormai acquisito una narrazione che tiene insieme la spiegazione di cose complesse, ma rivolta a un pubblico molto vasto. Un documentario ripercorre sempre una grande storia, ma lo fa anche attraverso testimonianze individuali. È il lavoro che faccio sempre con gli altri, stavolta l’ho fatto con me.
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