Ammettiamolo. Chi di noi non ha fantasticato di trovarsi, a sera, sulla sedia a dondolo in una di quelle verande del vecchio West affacciate sulla prateria. E da lì immaginare la frontiera, o, meglio, il suo mito romantico che nel segnare (e spostare di continuo) un “oltre” e un “al-di-qua”, stabiliva, così, confini identitari, di progresso e persino di felicità. Dunque, dondolarsi nel sogno (“sogno americano”, giustappunto) e, come accade negli sprofondi onirici, trovarsi, sincroni e affannati, in mezzo a mandrie, sceriffi, pellirossa, predicatori completamente bevuti che mentre tu sei alle prese, lacciolo dietro lacciolo, a conquistarti le nudità di una bella fanciulla, loro maledicono ogni forma di goduria con i versetti più tremendi dell’Apocalisse. E poi il treno, a spingere la pianura e il nuovo mondo; i fili del telegrafo a ronzare sull’imminenza di chissà quale notizia; i giornali che trasformano la vita in fatti.
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