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La rappresentazione della morte nella civiltà etrusca e nel nostro tempo

29/10/2008

L’alternarsi del tempo e delle sue ricorrenze ci riconduce in questi giorni nei cimiteri, laddove proviamo a instaurare una illusoria continuità materiale fra vita e morte; e di questo malinconico binomio, declinare una parvenza di normalità corredata da simboli, gesti, oggetti, parole. Il tentativo, insomma, è di far assomigliare il più possibile l’al-di-là all’al-di-qua, così da suturare ogni strappo, distanza, nostalgia. Un modo, se non altro, per convincere se stessi che anche qualcosa di noi rimarrà comunque. Del resto, da sempre, il culto dei morti è cosa che, fino a prova contraria, riguarda i vivi. Gli Etruschi, ad esempio, lo praticavano in grande stile, convinti come erano che i defunti continuassero ad avere una qualche forma di sopravvivenza terrena. Ecco, allora, che la tomba doveva assomigliare a una casa e di essa avere la parvenza della quotidianità con suppellettili, vestiti, oggetti preziosi. Sulle pareti del sepolcro venivano dipinte scene di forte vitalità: banchetti, danze, giochi atletici. Poi, dal V secolo a.C., sotto l’influenza della civiltà greca, il mondo dei defunti si incupisce, cominciò ad essere immaginato pure dalle popolazioni etrusche in un luogo sotterraneo (l’Averno greco, appunto), nel quale le anime trasmigravano scortate da spiriti infernali quali la dea Vanth (dalle grandi ali e reggente una torcia), il demone Charun (con viso deforme e che impugna un grande martello), il demone Tuchulcha (volto di avvoltoio e orecchie d’asino, armato di serpenti) [...]

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