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La scena era questa. Sul campetto di una Scuola Calcio un gruppo di bambini aspettava l’istruttore che era in ritardo. Già tutti in assetto. Scarpini coloratissimi, movenze da campioni che “non ce n’è per nessuno”. Saluti, vanterie, coloriti motteggi in voci bianche. L’allenatore non arrivava, i genitori (che nelle pratiche sportive dei figli rappresentano la parte più diseducativa) erano già altrove. Quale migliore occasione per organizzare una partitella, fare proprio, e senza intrusi, quel campo agli occhi loro vero come uno stadio. Così fecero i ragazzini. Formarono le squadre, si dettero delle regole. E via a chiamare palla, a correre lungo le fasce, a convergere verso il centro, a calciare la contentezza e la prima aria di primavera. Arbitri di se stessi, invocavano le regole, trovavano un accordo, la moviola dava sempre ragione alla voglia di giocare.
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