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«L’oggetto magico ricorda il mondo di Mercator, solcato da meridiani e paralleli…». L’incipit (poderoso) di uno dei libri più belli di Gianni Brera. Il pallone visto come un globo terracqueo: soprattutto, come se lo immaginavano gli astronomi e i cartografi del 500. quando il sapere era ancora bambino, e si disegnavano ingenui mappamondi con le terre allora conosciute. E spuntavano fuori, dal mare, misteriose creature mitologiche. Disegni che raffiguravano mostri degli abissi, draghi marini, demoni acquatici. Il pallone come un oggetto semplice. Perché era di cuoio, o più banalmente di gomma. Rosso, come il Supersantos che costava duemila lire. Bianco (o rosso o blu) e nero come il Super Tele, che volava come una piuma, e tutti ci illudevamo di possedere la castagna di Gigi Riva.
Il pallone come un oggetto magico, perché era l’oggetto del sogno. Il piacere del gioco, certo, ma con tutte le emanazioni di un sogno: nomi esotici di grandi arene come Wembley (dopo aver ascoltato la sigla dell’eurovisione) , di fenomenali campioni come Cruijff (che giocava con il quattordici e per questo pensavamo che dovesse prendere partita persa). Di squadre leggendarie e con il nome difficile, come il Borussia Monchengladbach. E, più prosaicamente, il sogno delle figurine Panini: spasimando per avere un tale Battisodo che ti permetteva di completare il Bologna. Le facce dei calciatori degli anni 70, lontane anniluce dalle creste all’ultima moda o i bicipiti tatuati di adesso. Facce di centrocampisti del Mantova, o del Catanzaro, che sembravano appena usciti da un tackle con Benetti.
Poi venne l’82. E lì diventammo tutti grandi. Anzi, diventammo tutti qualcosa di più, perché finalmente il sogno si era fatto carne. L’Italia che vinceva il Mundial di Spagna fu qualcosa di più di un’affermazione sportiva. Fu un cortocircuito totale che ci proiettò dritti filati in un’altra dimensione. Una vittoria epocale che mise fine ai nostri anni di mezzo. E ci fu tutto un paese che in quei giorni si sentì bello, potente e fiero come non lo era mai stato. E come non lo sarebbe stato mai più.Lì scoprimmo che gusto pazzesco poteva avere una vittoria: il delirio di quei ragazzi che eravamo, In maglietta e blue jeans, con i capelli a caschetto per assomigliare a Miguel Bosè, o a Cabrini. Tutti a bagno nelle fontane, o a suonare il clacson in caroselli interminabili. Ebbri di gioia per una vittoria finalmente schiacciante ed ineccepibile. Santificata dalla qualità (anche umana) di quei protagonisti che da allora ognuno di noi custodisce gelosamente in un angolo di cuore: Dino Zoff che alza la Coppa nel cielo di Madrid, Bearzot portato in trionfo, il vecchio Presidente Pertini che saluta dalla tribuna. E l’urlo selvaggio e liberatorio di Marco Tardelli, nell’esultanza più bella di tutta la storia del calcio.
Quei ragazzi che nell’82 vissero un sogno, sono i cinquantenni di adesso. Sono quelli che tra sette giorni saranno nuovamente davanti alle televisioni e ai maxischermi in piazza per celebrare questa specie di eucarestia che si presenta ogni quattro anni. Hanno cinquant’anni e sono i protagonisti di un mondo che è molto cambiato da allora: e che probabilmente non ha corrisposto alle attese di trentadue anni fa. Ma c’è sempre un pallone che rotola, e aiuta se non altro a contare gli anni, come le Olimpiadi per l’Antica Grecia. «Era per caso il 94 quando Baggio sbagliò il rigore?»
«E dove eravamo quando Fabio Grosso segnò il gol con la Germania?».
Buon Mondiale a tutti.
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