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Per un attore di teatro capita, presto o tardi, di volersi - e per certi versi doversi - rapportare con il ruolo di Amleto. Da quando, 500 anni fa, il Bardo ne scrisse la tragica storia il principe di Danimarca è diventato un punto focale per la carriera di un attore. Sono ormai 4 anni che Filippo Timi veste i panni del personaggio probabilmente più complesso che sia stato mai concepito, portando in giro per l'Italia lo spettacolo “Amleto O2”, di scena nei giorni passati al Teatro della Pergola di Firenze. Segno che la sua è una lettura che piace, intriga e fa dibattere, sia il pubblico che lo stesso Timi.
Se pensate di vedere un Amleto tradizionale o un Amleto rivisto in chiave moderna, siete sulla strada sbagliata: quello che viene portato sul palco è tutto ciò ma anche il suo contrario. Un insieme vorticoso di classicità e contemporaneità, un continuo rimando alle fonti più disparate. È un Amleto che non lascia indifferenti: si può ridere di gusto per le citazioni “basse” o si può essere infuriati per la quasi completa destrutturazione del testo. Sono comunque cento minuti di coinvolgimento puro della mente nel seguire il filo della pazzia del protagonista. È un Amleto letteralmente in gabbia, folle, pieno di nonsense, che vuole ridere di sé e delle sue sciagure. Che prova a coinvolgere Ofelia scuotendola dal torpore in cui è caduta ma non ci riesce. Che insulta con ferocia la madre e lo zio. Che prende in giro tutto e tutti, in un tourbillon di parole e azioni che non lascia pause per strada. Che mescola il Pulcino Pio - ovviamente inserito in modo ironico - a Lucio Battisti, la cui "Comunque bella" fa da colonna sonora alla scena più travolgente e coinvolgente: quella in cui Amleto dichiara il suo "non amore" ad Ofelia arrampicandosi sulla grata della gabbia che circonda il suo spazio vitale.
Il metateatro è parte essenziale del testo. Gli attori che aiutano Amleto a far confessare lo zio sono anche gli attori che concretizzano i pensieri più reconditi del Principe. Tutti, sorretti da un affiatamento tutt'altro che scontato, si rivolgono al pubblico in modo diretto e spontaneo: la sensazione che lasciano è che i personaggi siano di loro proprietà e non possano essere portati in scena da altri. Non nello stesso modo, almeno. Il che è la prassi nel teatro ma qui assume un significato più profondo, legato alle singole personalità e anche ai singoli momenti recitativi. Uno spettacolo che lascia dubbi e domande, come nelle intenzioni dello stesso Filippo Timi, bravo nel continuare, nonostante le tante messe in scena, a ricavare sempre nuovi spunti dal suo lavoro.
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