Chi abbia avuto l’opportunità di assistere alla celebrazione di un matrimonio ebraico, sarà rimasto affascinato da una liturgia così arcaica che ancora va a inscriversi nella vita di due persone e in un tempo – il nostro oggi confuso e interlocutorio – distanti millenni da ciò che quel rito evoca. Lui e lei sotto la huppà, baldacchino-casa così solenne e precario; il corteo che incede verso i rotoli della Torah mentre una voce (più che voce, singulto di memoria) cantilla versetti che parlano di mogli come vite feconde e di figli come germogli di ulivo; lo scialle del rabbino, benedizione carezzevole sulla testa degli sposi; e infine la rottura di un bicchiere, perché non può esserci festa se venisse dimenticato il dolore provocato dalla distruzione del tempio di Gerusalemme («Si paralizzi la mia destra se ti dimentico Gerusalemme», proclama il maschio).
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