William Trevor, brevi storie sulla condizione umana

Luigi Oliveto

01/08/2019

In questa rubrica di svelte segnalazioni librarie, già era capitato di parlare dell’irlandese William Trevor (1928-2016), maestro di short story, riconosciuto dalla critica come un degno erede di Gogol, Čechov, Maupassant, del James Joyce di Gente di Dublino. Oggi è riproposto alla nostra attenzione dall’uscita degli ultimi racconti, una raccolta che il figlio Walter ha trovato tra le carte dello scrittore, pronta per essere data alle stampe (“E’ come se la mortalità lo avesse reso impaziente”, ha dichiarato il figlio). Il libro è pubblicato in Italia con il titolo “La ragazza sconosciuta”, edito da Guanda per la traduzione di Laura Pignatti. Sono dieci storie in cui, ancora una volta, si cerca il vero della vita (e della sua fine) in vicende anonime, che si direbbero insignificanti. Eppure – bada a suggerirci Trevor – ciascuna racchiude in sé verità sorprendenti, schegge di universalità. L’autore, in tutta la sua produzione, ha sempre prediletto queste esistenze ‘minori’, spesso ferite, disadattate, fuori tempo rispetto ai ritmi consueti della vita. Nel caso degli ultimi racconti, il filo conduttore che lega i diversi personaggi è la solitudine e l’ineluttabilità della morte (non sembrerebbe un caso la scelta dello scrittore nel volere che fossero pubblicati postumi). Ecco, allora, una insegnante di pianoforte che vive sola nel suo appartamento e che finge di non vedere i furti dell’allievo pur di continuare ad ascoltare la sua musica; due amiche divise dall’amore per lo stesso uomo che si incontrano, dopo tanto tempo, alla morte di lui; due immigrati dell’Est Europa chiusi nel silenzio di fronte alla misteriosa scomparsa dell’uomo per cui lavorano; una ragazza che viene a scoprire come sua madre, creduta morta, sia ancora viva; una donna delle pulizie di cui era noto soltanto il nome che muore in un incidente stradale. Trevor ci porta così a condividere il suo punto di vista che rivela la straordinarietà di ciò che sembrerebbe ordinario, marginale. Punta la luce giusta sulla condizione umana, sui dubbi e gli interrogativi che essa suscita. Magari per giungere alle stesse conclusioni con cui termina il racconto della signorina Nightingale, la solitaria, ingenua insegnante di pianoforte che aveva vissuto una vita insieme al padre fabbricante di cioccolata, amato per sedici anni un uomo sposato che poi l’avrebbe mollata, dedicato interi pomeriggi “perlopiù a bambini privi di talento e interesse”. Probabilmente – arguisce Trevor – la signorina Nightingale “aveva preteso troppo nel cercare di capire in che modo la fragilità umana fosse connessa all’amore, o alla bellezza portata dal talento. C’era un equilibrio e questo bastava”.
 
***
 
[…]
Dopo un po’ la signorina Nightingale accese il caminetto elettrico, perché era una sera d’aprile piuttosto fresca. Al calduccio, soddisfatta, sentì che anni di incoraggiamenti e consigli – offerti perlopiù a bambini privi di talento e interesse – davano finalmente i loro frutti. Dentro questo ragazzo, così umile nei modi, c’erano intere sinfonie non scritte, suites, concerti e oratori. Ne era sicura, senza neanche bisogno di pensarci.
Mentre l’oscurità calava, e dopo avere quasi finito di sorseggiare il secondo bicchierino di sherry, la signorina Nightingale rimase seduta ancora per qualche istante. Tutta la sua vita, pensava spesso, era in quella stanza, dove il padre l’aveva cresciuta nella sua infanzia, dove l’aveva aiutata ad attraversare le tempeste dell’adolescenza, dove ogni sera tornava con un nuovo tipo di cioccolato inventato per lei. Era stato lì che il suo amante l’aveva corteggiata e le aveva sussurrato che era bellissima, giurandole di non poter vivere senza di lei. E ora, in quella stessa stanza, era avvenuto un miracolo. Nella penombra raggiunse l’interruttore della luce vicino alla porta. Quella stanza colma di echi e ricordi avrebbe certamente subito l’influsso anche di quel pomeriggio. Come sarebbe potuta rimanere la stessa? Quando accese la luce, però, tutto pareva immutato. Solo quando tirò le tende si accorse del cambiamento: la piccola tabacchiera con lo stemma di qualcun altro era sparita dal tavolino davanti alla finestra.
Il venerdì seguente mancava un cigno di porcellana, poi scomparve il coperchio con la scena di Grandi speranze, e qualche tempo dopo un orecchino che si era tolta perché la clip era difettosa. Un sabato mattina quando cercò una sciarpa non la trovò al suo posto sull’appendiabiti dell’ingresso. Eppure era di una stoffa troppo sottile per poter essere usata da un ragazzo. Sparirono anche due dei soldatini dello Staffordshire. Non capiva come facesse. Stava attenta, ma non vide mai nulla. Non disse nemmeno nulla, e il ragazzo era talmente immune a ciò che stava accadendo, talmente imperturbato dal proprio comportamento, che la signorina Nightingale cominciò a chiedersi se potesse essersi sbagliata, se non fosse per caso uno dei suoi allievi meno dotati ad avere la mano lesta, o se lei avesse notato soltanto ora l’assenza di oggetti che magari le erano stati sottratti nel tempo. Ma nulla di tutto ciò aveva senso, e le sue esili giustificazioni crollavano miseramente. Il fermacarte con i petali di rosa c’era quando lui aveva iniziato a suonare i Preludi di Chopin. Quando era rientrata dopo averlo accompagnato alla porta non c’era più. Non era un’insegnante quando era con lui, perché aveva così poco da insegnargli, e tuttavia sapeva che lui gradiva la sua presenza, che averla come unica spettatrice era più importante dei suoi commenti. Poteva essere, si chiese perfino, che si prendesse quelli che riteneva giusti compensi per le sue esecuzioni? Certe fantasie infantili non erano insolite: lei stessa era stata una ragazzina incline all’inventiva e alla finzione. Poi però respinse anche quell’ipotesi, intuendo che non poteva essere vera. Di notte non riusciva a dormire, la tensione prima e l’incredulità poi alimentavano sogni vividi, in cui il ragazzo era infelice e lei cercava di consolarlo, di farlo parlare non appena finiva di suonare i suoi brani. Tentava all’infinito di dirgli che lei una volta aveva sottratto un cioccolatino dalla scatola speciale di suo padre, ma non ci riusciva. Poi, nuovamente sveglia, nell’oscurità della notte si ritrovava in preda a pensieri mai avuti prima. Si chiedeva se suo padre fosse stato esattamente come lei lo percepiva, se l’uomo che aveva così a lungo ammirato e amato si fosse approfittato del suo affetto. I cioccolatini di suo padre erano stati un incentivo per farla restare con lui, una forma velata di egoismo? L’uomo che aveva ingannato la moglie, aveva ingannato anche l’amante, visto che l’inganno era parte di lui, che le bugie erano intrecciate all’amore che provavano l’uno per l’altra? Al buio respingeva tutti quei pensieri, non sapendo da dove venissero o per quale motivo sembrassero collegati a ciò che stava accadendo in quel momento, ma continuavano a ripresentarsi, come se una verità a lei incomprensibile illuminasse le ombre che un tempo le avevano nascosto la realtà. Erano una cosa da nulla quei furti? In fondo erano oggetti di poco conto, e gliene restavano comunque molti altri. Se avesse parlato, il suo allievo non sarebbe più tornato, anche se gli avesse detto che gli perdonava quella piccola infrazione. Sapeva poco o nulla, e tuttavia di questo era certa, tanto che spesso evitava perfino di guardare se mancasse qualcosa. La primavera di quell’anno lasciò il posto a un’estate torrida che proseguì fino alle piogge di ottobre. Per tutto quel tempo, di venerdì pomeriggio, il campanello suonò regolarmente, e lui arrivava, sempre lo stesso ragazzo silenzioso che lasciava il berretto sull’attaccapanni dell’ingresso, si sedeva al pianoforte e la portava con sé in paradiso.
Anche gli altri allievi della signorina Nightingale andavano e venivano, lui però era l’unico a non richiedere mai cambi di orario. Mai le portò una giustificazione, mai accampò una scusa o un pretesto. Graham le parlava dei suoi animali per rimandare l’esecuzione dei pezzi non studiati. Diana piangeva, Corin lamentava un dolore a un dito, e Angela rinunciava. Poi con lo scorrere del tempo arrivava puntuale un altro venerdì, e nella vita della signorina Nightingale trovava spazio un pomeriggio di beatitudine. Ogni volta che il ragazzo se ne andava, però, la musica che aleggiava lieve nell’aria aveva il suono di una presa in giro.
Le stagioni si avvicendarono di nuovo, e di nuovo ancora, e poi un giorno il ragazzo non si presentò. Era troppo grande ormai per quelle lezioni di musica e per la scuola, se n’era andato altrove. Alla signorina Nightingale la sua assenza portò pace, e il tempo che seguì servì a placare ulteriormente il suo disagio. Che un padre solo fosse stato un uomo calcolatore sembrava meno importante, ora, rispetto a quando quel pensiero era fresco. Che un amante adorato avesse calpestato il suo amore importava meno in quella stessa rassicurante visione retrospettiva. Era stata vittima anche del ragazzo, che aveva sfoggiato davanti a lei l’altro suo talento. Ed era stata vittima di se stessa, della sua incurante ingenuità, della propensione a voler credere all’apparenza. Tutto questo, intuiva, era vero. E tuttavia qualcosa continuava a roderle dentro. Sentiva di avere il diritto di capire meglio.
Tornò molto tempo dopo, il ragazzo, più duro, alto e ruvido nella sua adolescenza sgraziata. Non tornò per restituire ciò che le apparteneva, ma andò dritto al piano e suonò per lei. Il mistero racchiuso nella musica era nel suo sorriso quando ebbe finito, mentre aspettava la sua approvazione. E guardandolo, la signorina Nightingale comprese ciò che prima le era sfuggito: che il mistero in sé era una meraviglia su cui lei non poteva accampare alcun diritto. Aveva preteso troppo nel cercare di capire in che modo la fragilità umana fosse connessa all’amore, o alla bellezza portata dal talento. C’era un equilibrio, e questo bastava.
 
[da “L’allievo della maestra di pianoforte” di William Trevor, trad. di Laura Pignatti, in La ragazza sconosciuta. Ultime storie, Guanda, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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