06/10/2010
C’è una Siena di Vittorio Mariani (1859-1946) non meno estesa e articolata di quella di Giuseppe Partini. Finalmente un’ampia monografia dedicata ad un architetto tanto prolifico e ingegnoso (Maria Antonietta Rovida Laura Vigni, Vittorio Mariani architetto e urbanista.1859-1946. Cultura urbana e architettonica fra Siena e l’Europa (Edizioni Polistampa) ci consente di apprezzare con maggior consapevolezza opere e soluzioni sparse un po’ ovunque. Maria Antonietta Rovida ha scelto di esaminare le architetture a partire dai rapporti con la committenza e dalle relazioni con la realtà sociale nella quale le idee e i progetti prendevano corpo. Vittorio Mariani nacque a Siena da una modesta famiglia. La sua prima formazione si svolse nell’Istituto d’Arte, dove subito si distinse nella Scuola di Architettura. La permanenza di studio a Roma, all’altezza degli Anni Ottanta, slargò gli orizzonti della sua formazione, alla quale contribuì in misura decisiva il forte legame con Giuseppe Partini, maestro seguito con devota ammirazione, ma anche con un sommesso distacco critico. Nel 1894 Mariani fece ritorno nella “piccola patria”, che non significò comunque chiusura e ripiegamento. L’affermazione nel concorso per il Palazzo Postelegrafonico di Siena (1908) segna una data chiave della sua biografia. Ma la sua presenza a Siena si esprime in una molteplicità di episodi che gli danno davvero la statura di un protagonista. Con Partini egli è l’architetto che dà un’impronta più estesa e riconoscibile alle vicende costruttive della città: con edifici pubblici e ville, in imprese di edilizia residenziale e nella definizione di spazi assai frequentati, come piazza Umberto I, preludio e avvio di quel sistema di giardini e passeggi che aveva nella Lizza il suo riconosciuto fulcro: era l’innesco di un Parco urbano progressivamente costretto, se non cancellato, malgrado i tentativi di rilancio. Non si può dire che Mariani pretendesse di essere un urbanista: eppure quella parte di città che sfuma in aperti giardini annovera tante sue opere (non solo il Palazzo Postelegrafonico, ma anche l’Asilo Monumento, e quello antecedente della Camera di Commercio e l’edificio, del 1926, della Cooperativa edilizia fra gli impiegati del Monte in via Franci) e tra loro si stabiliscono tali nessi di rispecchiamenti e echi che si ha l’impressione che qui mariani abbia dato vita ad un pezzo di rarefatta città, all’insegna di una sobria eleganza e col respiro di una svagante sosta, dal ritmo così diverso rispetto al labirinto compatto delle città murata . Non c’è stato, purtroppo, alcun riguardo per questo spazio polifunzionale. L’idea, del tutto confliggente con le soluzioni primonovecentesche, di mutarlo in centro direzionale ha prodotto due mostri, il goffo Palazzo di giustizia e l’ingombrante Camera di commercio, che, insieme al palazzo Inail, hanno irrimediabilmente compromesso un insieme che poteva conseguire qualche coerenza. E se di tanto in tanto si riafferma la necessità di dare ordine all’intera area Lizza-Fortezza o si ripete di non voler accantonare il progetto di grande parco urbano, non si riesce poi a dar concretezza ai buoni propositi, enunciati stancamente forse a scarico di coscienza. Da un lato, dunque, Mariani propende per un approccio storico-erudito (con il citazionismo che ne deriva), dall’altro non si perita d’innestare nei modelli da cui trae ispirazione un’ “impronta di modernità”, secondo un’azzeccata espressione della Rovida. Si potrebbe per lui parlare d’una modernità avveduta, prudente, qualche volta impacciata, attenta a non entrare in conflitto con i caratteri dominanti della tradizione e pur tesa a svincolarsi dalla matrice gotica a favore di un più aperto e funzionale timbro neorinascimentale. Il suo approdo a incarichi amministrativi di prestigio è del tutto naturale e coerente con la sua idea di “architetto integrale”: artista, tecnico, uomo di cultura e – perché no? – amministratore pubblico di solida preparazione .
Laura Vigni analizza acutamente fasi e proposte dell’esperienza d’amministratore di Mariani, che entrò in Consiglio comunale il primo settembre 1902 sull’onda di un buon successo e immediatamente ottenne l’incarico di Assessore ai lavori pubblici. Restò poco in Consiglio, fino al 1906: l’intreccio tra la sua attività professionale ed il suo ruolo politico non lasciò indifferenti le opposizioni, che non esitarono a criticare, a più riprese, un caso clamoroso di – per dirla con una terminologia oggi molto in uso – “conflitto di interessi”. Non limpide sono le posizioni via via assunte da Mariani, talvolta reticente, altre vigorosamente polemico e astioso verso colleghi concorrenti (tra i più in vista Agenore Socini), altre tutto calato nel suo ruolo di tecnico, altre ancora sfuggente proprio su questioni che avrebbero dovuto vederlo partecipe, se avesse obbedito a assunti teorici tipicamente suoi. Nella politica amministrativa la sua figura non ha il riconoscibile profilo che possiede nella sfera professionale e nella passione di docente. Il tecnico sovrasta di gran lungo l’uomo impegnato a discutere le scelte all’ordine del giorno. Non a caso Mariani dà il meglio di sé quando si tratta di impostare la costruzione del nuovo acquedotto del Vivo o dell’indispensabile fognatura o quando si deve decidere l’ubicazione dell’aula consiliare all’interno del Palazzo pubblico. Fu più che sensato scegliere – e Mariani ne fu il più energico assertore – la Sala del Capitano quale sede delle riunioni dell’animato consesso.
Di contro ad un’ “architettura dell’Italia” immaginata per fondamentali opere pubbliche del neonato Stato nazionale emergono, fervide e vitali, “specifiche ‘architetture degli italiani’ – osserva nel bel saggio introduttivo Maria Luisa Neri –, con temi che volta a volta richiamano le fasi di maggior peso ideologico proprie di ciascuna regione o città italiana”. In questo plurale cantiere tra crisi di fine-Ottocento e dinamica intraprendenza della borghesia giolittiana Mariani occupa con dignità un suo posto: teso com’è ad elaborare un linguaggio che, come nell’emblematico Palazzo Postelegrafonico, unisca echeggiamenti di un’idealizzata gloria cittadina con una modernità discreta e intonata, sì da proporre “una linea di evoluzione alternativa dell’immagine della senesità”. L’estro di Mariani (scomparso nel 1946) è oggi più che altrove riconoscibile in ville che serbano miracolosamente il profumo d’un’epoca e preziosi elementi di Art Nouveau. Penso a Villa Elvira (1930), ai Cappuccini, che mi capita ogni giorno sotto gli occhi: con la sua torretta alta in angolo, dalla quale si guarda Siena come da un belvedere, e con la loggia-balcone sul fronte per le conversazioni delle sere estive.
Articolo pubblicato su Il Corriere di Siena del 3 ottobre 2010
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