Non passa settimana senza che le cronache riportino di violenze efferate alle donne che, purtroppo, sfociano anche nella loro morte. All'indomani della condanna a
13 anni e cinque mesi di reclusione per Oscar Pistorius - al termine del processo di secondo grado per l'assassinio della sua fidanzata Reeva Steenkamp nel febbraio del 2013 - e soprattutto in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne,
pubblichiamo un paragrafo del capitolo "L'angoscia della libertà" tratto da
L'ho uccisa io. Psicologia della violenza maschile e analisi del femminicidio di
Luciano di Gregorio.
L’attacco al corpo della donna/tentazione/peccato
L’attacco al corpo della donna avviene in differenti maniere e in condizioni sociali e ambientali distanti e molto diversificate tra loro. In India, ad esempio, in questi ultimi anni, si sono verificati molti episodi di stupro di ragazze ad opera di gruppi di ragazzi organizzati in bande di quartiere, che hanno agito indisturbati compiendo i loro delitti in mezzo alla gente, sugli autobus pubblici, con la compiacenza della polizia locale che di solito non interviene. La situazione è degenerata a tal punto da provocare lo sdegno e le proteste dell’intera popolazione con manifestazioni di protesta in diverse città dell’India. Lo stupro di gruppo di una studentessa di 23 anni su di un autobus pubblico avvenuto a New Delhi nel dicembre 2012, che in seguito alle ferite riportate è deceduta in ospedale, è stato l’episodio più cruento che ha scatenato manifestazioni di protesta in tutto il Paese, ma non è riuscito comunque a fermare l’ondata di violenza contro le giovani donne indiane.
La violenza sul corpo della donna non è solamente quella fisica degli stupri e dei femmicidi, ci può essere anche una violenza sociale, istituzionalizzata, che mutila il corpo femminile fin dall’infanzia, come avviene in molte comunità tribali dell’Africa sub sahariana, dove si pratica ritualmente l’infibulazione degli organi genitali femminili per impedire che esse possano usarli per il piacere sessuale. C’è la violenza morale sul corpo femminile considerato eccessivamente attraente o quella psicologica messa in atto dalla famiglia che condiziona la donna fin da bambina a pensarsi come brutta o immorale in quanto donna. Nella nostra società, apparentemente modernizzata e liberale, si stenta a crederlo, ma si sta tornando per davvero a considerare il corpo attraente della donna come un pericolo, una minaccia e una tentazione per l’uomo. L’esibizione del proprio corpo per renderlo più sensuale è un comportamento che torna a essere considerato indecente anche nel nostro Paese, non solo in India, o nei Paesi arabi. Il corpo femminile è considerato come una minaccia, va pertanto censurato, o meglio ancora distrutto, anche solo virtualmente, attraverso parole di disprezzo e di colpevolizzazione.
Il corpo della donna va coperto perché è motivo di eccitamento e di tentazione per l’uomo, un’azione preventiva consiste nell’evitare che la sua esibizione stimoli la violenza innata dell’uomo, favorisca l’espressione degli istinti distruttivi. Persino i preti di piccole canoniche si scagliano con nuove invettive sul corpo della donna e sulla donna in quanto tale, perché la reputano un pericolo per la morale sessuale e il matrimonio, quando essa mostra il suo corpo con vesti troppo succinte. Una tentazione per l’uomo che poi, provocato, può diventare anche violento, può finire per scagliarsi con violenza distruttiva contro la fonte di peccato, per liberarsi di quella che considera una minaccia alla sua integrità o alla sua condizione di essere un maschio carico di pulsioni e debole nel tenerle a freno.
Le donne che si mostrano liberamente sono considerate delle provocatrici e vanno represse, riportate all’ordine. È successo per davvero, alla fine del 2012, in un piccolo paese del levante ligure, San Terenzo, in provincia di La Spezia. Il parroco di quella piccola comunità di fedeli,
don Piero Corsi, ha fatto affiggere un volantino nella bacheca della chiesa accusava le donne di provocare gli uomini, mostrandosi troppo spesso in bichini microscopici, con abiti trasparenti, pantaloni molto attillati, e di essere troppo autosufficienti, finendo così per stimolare le reazioni violente di cui parlano le cronache dei giornali. Non è colpa degli uomini violenti, quindi, se poi vengono uccise. Se ciò accade, è perché esse se lo sono cercato, hanno provocato gli uomini e hanno finito per stimolare gli istinti peggiori con i loro comportamenti. Nel volantino il parroco conclude che per questo motivo esse devono fare “una sana autocritica”.
Nella famosa canzone di
Fabrizio De Andrè, che raccontava in versi la storia di una donna provocante che, regalando rose e amore a tutti gli uomini che ne facevano richiesta, aveva creato scompiglio nel paesino, sempre ligure, di S. Ilario, diversamente da quanto accade nella realtà di oggi, la donna sensuale riscuoteva un notevole successo. Si chiamava “Bocca di rosa”, ed era talmente attraente da suscitare l’invidia delle comari che vedevano preferire le grazie della nuova arrivata alle loro ben più modeste condizioni fisiche di donne casalinghe. Ma nella finzione/realtà della canzone, persino il parroco non disdegnava la sua bellezza, e nel testo si racconta che il prete, tra un misere e un’estrema unzione, il bene effimero della bellezza lo volle in prima fila in processione. Don Piero da S. Terenzo, diversamente, vuole che le signore più in generale si facciamo un sano esame di coscienza. Il nodo per questo spigliato parroco di Paese sta nel fatto che “le donne sempre più cadono nell’arroganza, si credono autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni”.
Ma qui non siamo davanti a una reprimenda della chiesa che, in nome di un’antica morale religiosa, vede nella donna la tentazione e il peccato, un elemento di fastidio e di prurigine sessuale per l’uomo, che altrimenti non sarebbe così propenso al peccato e di conseguenza alla violenza, quando ad esempio si confronta con la donna tentatrice e si accorge di non essere più soddisfatto di quello che ha. Oppure quando, malgrado manifesti apertamente il suo desiderio, finisce a volte per subire una delusione sentimentale da parte della cosiddetta peccatrice, che il suo orgoglio di maschio non aveva per nulla previsto. Frustrazioni che, a quanto sembra, non è possibile superare altrimenti, se non distruggendo fisicamente l’elemento di disturbo, eliminando la minaccia femminile. Siamo davanti ad una svalutazione del corpo della donna in quanto corpo sessuato ed eccitante, colpevole di volersi esibire liberamente e di volersi mostrare a un pubblico maschile occasionale, senza censure e senza limiti, come se si dovesse porre un limite alla libertà di espressione sensuale della donna solo perché gli uomini non sono in grado di controllarsi, di essere capaci di rispetto per l’altro sesso. Non sanno essere altrettanto liberi di manifestare il proprio desiderio, e nemmeno di essere persone che sanno sopportare e accettare la frustrazione di un eventuale rifiuto, come se non disponessero del controllo del desiderio che è stimolato dalla visione del corpo erotico femminile.
Ma l’attacco al corpo della donna non è solo una questione di ordine morale e religioso. Dietro questa necessità di umiliare, denigrare il corpo femminile e colpevolizzare la donna che lo esibisce in libertà, sembra nascondersi un altro bisogno che non è solamente quello di censurare la sensualità femminile e di ripristinare una regola morale comune.
La spinta che favorisce la persecuzione della donna vista di nuovo come peccato, come una tentazione pericolosa, in una società che ha da tempo rinunciato a regolamentare la morale sessuale sembra un paradosso. In termini di morale sessuale, la nostra società ha eliminato ogni regola e tolto ogni limite alla libertà del desiderio del singolo in rapporto all’appagamento sessuale.
Il desiderio si è fatto così consumistico e iperedonistico, fino a considerare lecite una serie di condotte libertine di uomini e donne, che possono avere infinite relazioni extraconiugali senza nemmeno più doverle nascondere al mondo, che considerano l’oggetto del soddisfacimento sessuale come una merce acquistabile in qualunque supermercato. Questo desiderio che nasce nella società capitalistica e che sembra non avere limiti, che accetta che le donne possano vendere il loro corpo per fare carriera o per mantenersi agli studi, non è portatrice di vita, di eros, ma come ci ricorda
Massimo Recalcati è se mai espressione di una pulsione di morte.
È il culto ipermoderno dell’uomo macchina, dell’uomo come puro apparato di godimento pulsionale. Contro questa nuova antropologia che esalta la dimensione macchinica della pulsione libera da vincoli, l’esperienza clinica insiste nell’insegnarci che ogni volta che il godimento prende la via della compulsione sregolata e del rigetto della castrazione, non è mai pulsione di vita ma solo pulsione di morte, corsa rovinosa verso la propria distruzione; non è godimento che potenzia, ma godimento che distrugge la vita.
Il disprezzo della donna come corpo destinato al soddisfacimento sessuale dell’uomo, nasce, a mio modo di vedere, dal bisogno di creare un nemico reale da combattere, per proteggersi da un nemico indefinito che, in questo caso, è rappresentato dal desiderio consumistico stesso, dalla logica edonistica che legittima l’uomo tecnologico nel disporre a piacimento di ogni cosa, del corpo della donna per il soddisfacimento sessuale come dei beni di natura per garantirsi un proprio benessere, senza tenere conto del deterioramento ambientale a cui ci conduce questo consumismo esasperato e senza regole. In tal senso l’attacco al corpo della donna considerato come il nemico visibile è la conseguenza di un’elaborazione paranoica del lutto e della colpa, in cui si mette nella donna/tentazione che spinge a soddisfare il desiderio sfrenato la responsabilità del danno che lo stesso desiderio senza limiti porta alla comunità sociale e all’ambiente di vita.