Il romanzo d’esordio di Manuela Faccon si intitola “Vicolo Sant’Andrea 9”. È l’indirizzo da cui muove la vicenda di Teresa, portinaia in un palazzo del centro di Padova negli anni Cinquanta. In verità siamo nel momento in cui la protagonista sta per lasciare le due stanzette della portineria perché è stata licenziata. Attende suo fratello con il furgoncino per caricarvi gli scatoloni: “Erano passati dieci anni, dieci lunghi anni finiti in qualche sacchetto e dodici scatoloni. Assieme alla sporta nera. Aveva gettato tanta roba vecchia, ma quella no. Quella sarebbe rimasta sempre con lei”. Però Teresa aspetta, ansiosa, anche il rientro di Vincenzo, il giovane padrone di casa, poiché è arrivato il momento che lui conosca ciò che non sa: “Avrebbe finalmente parlato a Vincenzo. Come, ancora non sapeva. Cercava le parole, ma non le venivano. Tutti quegli anni in poche frasi. […] Chissà come avrebbe reagito, quando avrebbe saputo la verità […] coprì con la mano la scatolina di legno intarsiato e la lettera che aveva scritto con tanta cura”.
La portinaia di vicolo Sant’Andrea conserva un doloroso segreto. Un fatto sconvolgente accaduto nel dicembre del 1943, quando lei aveva 16 anni e lavorava dai Levi. Una famiglia di ebrei che l’avevano presa in casa con loro, trattata ed educata come una figlia. Era la figlia femmina che non erano riusciti ad avere. Un giorno, di ritorno dalla spesa, giunta davanti casa assiste all’arresto di tutta la famiglia Levi, primo drammatico atto della loro deportazione. Nella concitazione di quegli attimi la padrona riesce ad affidarle il suo ultimo nato da poche settimane, Amos. Un fagottino avvolto dentro a dei lenzuoli che infilerà dentro la sporta. Per un po’ riesce a tenerlo nascosto, finché qualcuno farà la spia, il bambino le verrà sottratto e lei sarà rinchiusa in manicomio. Ma mai dimenticherà quella creaturina e l’impegno a proteggerlo che si era assunta. Ancora oggi si chiede se sarà vivo, dove potrà essere, che persona dovrà immaginare. Teresa avverte che, prima di questa sua nuova svolta di vita, prima di lasciare vicolo Sant’Andrea, deve in qualche modo dare compiutezza a una promessa, rendere ragione a una verità. Sorretto da una buona tenuta narrativa che alterna i due piani temporali, il romanzo di Manuela Faccon risulta una intensa storia sul senso morale dell’impegno verso gli altri e verso sé stessi; anche a prezzo di rinunce, ma sempre salvaguardando la dignità dei propri valori e sentimenti.
***
Teresa si affrettò a obbedire e prese il primo vicolo sulla sinistra, che sbucava nello slargo di fronte a casa Levi. Riconobbe subito il cappello a tesa larga del Professore. Lo stavano spingendo su un autocarro e aveva le mani dietro la nuca. Giacomo, il maggiore dei figli, sbucò dal portone incespicando. Teresa strisciò lungo il muro fino al cancelletto del giardino.
“Teresa! Ehi, Teresa!”
Una voce quasi impercettibile la chiamava da dietro il deposito degli attrezzi. Era la padrona, reggeva tra le braccia un fagotto di lenzuola. Teresa la raggiunse e in mezzo a tutto quel bianco intravide il visino di Amos, il terzo figlio maschio dei Levi, nato da poche settimane.
“Salvalo. Portalo via.”
“Ma come faccio, signora? È pieno di soldati dappertutto! Cosa sta succedendo? Dove andate?”
“Non c’è tempo, Teresa. Aiutami, svelta. Metti Amos nella sporta e vattene.”
“Ma...” Le sfuggì un singhiozzo. La padrona non le aveva mai parlato con quel tono aspro, duro.
“Per favore. Non c’è un minuto da perdere.”
Allora si costrinse all’azione e rovesciò la sporta, da cui rotolarono fuori carote, mele, patate e l’involto della carne. La signora Levi gliela strappò di mano e vi adagiò dentro Amos, guardandolo con occhi pieni d’amore.
“Tieni anche questi.” Le porse un vasetto con dentro dell’acqua e una piccola scatola di legno intarsiato. “Prenditi cura del mio bambino. Promettimi che non lo abbandonerai,” le disse, con un tono di voce improvvisamente calmo.
Teresa la guardava e faceva segno di sì con la testa, ma senza davvero capire.
“Qui dentro c’è il suo futuro, il dono per la sua prima Hanukkah, la nostra Festa delle luci... Lo sai Teresa, no?” Grosse lacrime rotolavano sulle guance della signora Levi. “Sarà come un figlio per te, come tu sei stata per me la figlia femmina che avrei tanto desiderato.”
Lei continuò ad annuire, trattenendo il respiro.
“Promettimelo.”
E Teresa promise.
Poi, la signora che l’aveva accolta in casa con dolcezza otto anni prima sottraendola alla miseria, la donna che era stata per lei come una madre, che le aveva insegnato a leggere e a scrivere, affettuosa, sempre disponibile, mai un rimprovero, generosa di regali, si avviò verso la piazzetta a testa alta e scomparve assieme ai suoi.
Teresa rimase immobile dietro il deposito degli attrezzi, con la sporta stretta al petto. Amos emetteva un vagito di tanto in tanto, attutito dal bozzolo di lenzuola in cui la madre lo aveva avvolto. Quanto tempo era passato? Se almeno ci fosse stato Gianni ad aiutarla, a suggerirle cosa fare!
Oltre il cancello, tutto taceva. Erano sfumati anche i passi di marcia sull’acciottolato e le grida soffocate di chi veniva portato via. Il rombo delle camionette si perdeva in lontananza. Nessuna voce, nessun ordine perentorio giungeva più. Teresa si scostò dalla parete per spiare lungo la via. Tutto deserto. Sembrava che un incantesimo fosse sceso sul ghetto.
All’improvviso sentì un coraggio nuovo risalirle lungo il corpo. Corse nella rimessa di casa Levi, afferrò una bicicletta, assicurò la sporta al manubrio e salì in sella. Quando guardò il portone d’ingresso, mossa dalla necessità impellente di salutare per sempre il suo nido felice, si accorse che qualcuno vi aveva dipinto sopra frettolosamente, in rosso, la sagoma stilizzata di un impiccato e una stella a sei punte.
La vernice era sgocciolata per terra, formando nel sottoportico una chiazza del colore del sangue.
Scappò via con l’orrore in gola. Prese la strada del Duomo e svoltò subito dopo la piazza. La folla del mercato si era dileguata. Le bancarelle erano scomparse, le saracinesche dei magazzini erano state tutte abbassate, e così le inferriate del Salone. Da qualche finestra socchiusa giungeva il brusio di una radio: il bollettino di guerra dell’una.
Teresa si fermò e guardò nella sporta: Amos dormiva, dondolando dolcemente a ogni curva. Nessuno pareva essersi accorto di nulla. La scampanellata del tram la ridestò e riprese a pedalare lungo via San Francesco.
Dopo la Porta Pontecorvo iniziava la campagna. Grigia, desolata, aperta. Teresa si voltò a controllare il parafango che strideva contro il copertone. Un pianto sconsolato la fece accostare. Il neonato strillava. Doveva essere la fame, ma nella borsa c’era soltanto un vasetto con l’acqua, niente di più. Per fortuna, mancava ancora solo qualche chilometro e poi sarebbe apparso il grande casolare dove i suoi genitori e i suoi fratelli vivevano insieme ad altre quattro famiglie. Lì c’era la stalla, calda di fieno e generosa di latte. Teresa accennò una ninna nanna ripescata dalla sua infanzia e Amos si tranquillizzò.
Lungo l’argine cominciò a piovigginare, le ruote scricchiolavano sul ghiaino umido. Era il primo pomeriggio del 9 dicembre e Teresa si sentì invadere da una gelida paura mista a sconforto. Spingeva sui pedali con fatica. La strada sembrava non finire più.
In lontananza vide una figura snella venire dalla direzione opposta. Era Adele, la sua sorella minore. Avanzava alta sui pedali di una bicicletta da uomo.
“Che ci fai qui a quest’ora?” si stupì Adele piantando i freni. Un vagito si levò dalla sporta appesa al manubrio, e lei si sporse a controllare. Sgranò gli occhi: “E questo chi è?”.
“Si chiama Amos. Ha sette settimane” fu tutto quello che Teresa riuscì a rispondere.
Si guardarono. Non c’era altro da dire. Adele fece dietrofront per seguire la sorella maggiore lungo il canale. La nebbiolina rada penetrava nelle ossa.
Prima di risalire sulla bicicletta, Adele parlò: “Cosa ne facciamo di lui?”.
[da Vicolo Sant’Andrea 9 di Manuela Faccon, Feltrinelli, 2023]
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