12/06/2019
Ci sono delle sere in cui non posso fare a meno di andarci: è come se sentissi il richiamo e avessi necessità di camminare in quel teatro cielo aperto che è piazza della Signoria. È indubbiamente uno dei più affascinanti ed emblematici di Firenze: Palazzo Vecchio, scrigno di tesori d’arte e la torre di Arnolfo, la loggia dei Lanzi con il Perseo del Cellini, la Fontana del Nettuno dell’Ammannati, in cui la statua del dio è familiarmente chiamata “Biancone” dai fiorentini per l’eccessiva imponenza marmorea che la contraddistingue. Che la si raggiunga da via de’ Neri, percorrendo poi via della Ninna – un tempo parte dell’antica chiesa di San Piero in Scheraggio, dove si trovava il dipinto di Cimabue conosciuto come Madonna della ninna nanna – o che si arrivi in piazza della Signoria attraverso l’elegante via Calzaioli o ancora provenendo da Ponte Vecchio o dagli Uffizi, la bellezza di questa piazza, col suo contaminarsi di stili di epoche diverse, lascerà interdetti: io la amo particolarmente la sera, dopo il tramonto, quando è dorata di luci che ne illuminano i monumenti facendoli apparire come per incanto dalla semioscurità, oppure nella luce del mattino, quando il cielo è sereno e la piazza deve ancora risvegliarsi per accogliere i suoi numerosissimi visitatori.
Qui sono celati dettagli che rivelano la storia travagliata della città, come il disco di marmo che segna il punto esatto in cui fu arso vivo il Savonarola, la copia del David di Michelangelo il cui originale fu posto davanti al Palazzo Vecchio proprio nel periodo della Repubblica, immediatamente successivo alla fine del Savonarola o, ancora, come il profilo dell’uomo condotto al patibolo che, secondo la leggenda, Michelangelo tratteggiò sulla pietra più piatta, alla destra dell’entrata principale di Palazzo Vecchio, dietro il gruppo dell’Ercole e Caco del Bandinelli. Sembra, infatti, che l’artista, tenendo le mani dietro la schiena, senza voltarsi, abbia disegnato il volto del condannato, osservandolo passare in via della Ninna.1 Di solito mi piace sostare a lungo davanti al Palazzo Vecchio o alla Fontana del Nettuno, per poi spostarmi sulla sinistra di piazza della Signoria, accanto all’attuale Museo Gucci e, lentamente, quasi in modo furtivo, sgusciare fuori, percorrendo senza voltarmi via de’ Magazzini, silenziosa e generalmente non affollata, adeguata insomma a una fuga rapida e indolore dalla bellezza. Via de’ Magazzini è infatti una strada stretta dove il cielo si affaccia quasi timido tra le file parallele dei palazzi, vicinissima alla chiesa della Badia Fiorentina, in cui Giovanni Boccaccio dette voce alle prime Lecturae Dantis.
In via de’ Magazzini nacque Vasco Pratolini, il 19 ottobre del 1913. Narratore profondamente legato al territorio fiorentino e ancor più alla dimensione del “quartiere”, Pratolini è almeno inizialmente un autodidatta e deve il suo apprendistato a letture giovanili ispirate indubbiamente alla grande tradizione toscana e non solo […]. Considerata la tipologia di letture di cui si nutriva il giovane Pratolini, non è strano notare quanto sia preponderante l’aspetto autobiografico nella sua opera, sin dalle pagine della raccolta Il tappeto verde (1941) con il vivido racconto “Una giornata memorabile”, per arrivare al breve romanzo autobiografico Via de’ Magazzini (1942) e successivamente a Il Quartiere (1944), dove l’autobiografia cede il passo alla narrativa per tornare poi in primo piano con Cronaca familiare (1947).
Di via de’ Magazzini Vasco Pratolini offre un indimenticabile ritratto, nell’incipit del romanzo omonimo, in cui registra la visione che il piccolo Valerio, alias Vasco stesso, ha di questa via, quando ancora e nei primi anni di vita: “Ho imparato a distinguere gli uomini l’uno dall’altro guardando dagli interstizi di una balaustra dentro una camerata di soldati. La scuola di- rimpetto alla mia casa era trasformata in caserma, e siccome la strada era stretta – una delle strade medievali di Firenze che al centro della città formano come un’isola di silenzio – e i palazzi dirimpettai sembravano piegarsi l’un l’altro via via che ascendevano a tentare il cielo, i terzi piani della mia casa e della scuola diventavano come un unico appartamento: si sarebbe potuto, volendo, accedere da una stanza all’altra senza fatica”.
Fin da questo esordio è evidente come l’interesse precipuo di Pratolini non sia tanto raccontare la propria vita nelle vie fiorentine, quanto piuttosto il modo di vita degli uomini, come si mostrano gli uni gli altri e come insieme agiscono nella società del loro tempo, dando vita a eventi vissuti coralmente sebbene originati dalle azioni dei singoli. Scrive al proposito Luti: “Con Via de’ Magazzini assistiamo invece al recupero della memoria secon- do uno schema che ne accentua il carattere narrativo. […] D’altra parte questa non è una memoria di tipo ermetico (privatissima e aristocratica), ma un’entità nuova che tenta di proporre la documentazione di un’epoca e di una società ben definite. È questo dunque il vero inizio della storia di Pratolini, poiché è in questo recupero documentario e in questa necessità di fare cronaca che lo scrittore intuisce come nella disposizione sociale stia la chiave originale della propria poetica”
È proprio la capacità di raccontare una “società” a essere la cifra stilistica di Pratolini che di fatto «non inventa alcuna categoria narrativa», ma va a inserirsi esattamente in quel filone di scrittura che trova nel Compagni, nel Villani e nel Velluti, ossia gli antichi cronisti fiorentini, il proprio archetipo. Di solito, percorro via de’ Magazzini a naso insù, spiando il cielo tra i tetti: se è notte, arrivo persino a scorgere qualche stella, nonostante le luci, tanto da farmi credere che questa via stretta sia quasi un modo per focalizzare l’attenzione su una striscia di cielo e coglierne i dettagli più piccoli e remoti. In effetti, anche il piccolo Vasco, quando, ormai orfano di madre, sarà costretto a tornare nella casa di città in via de’ Magazzini, dopo alcuni anni passati nella “periferia”, ai margini del centro cittadino e vi ino alla campagna, noterà a maggior ragione questa peculiarità della strada.
Capitolo dal titolo “Santa Croce” tratto dal libro “Storie di Firenze”
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