Vicino Napoli c’è un’isola, un’appendice della città, chiamata Nisida. Qualcuno ha da eccepire che non possa dirsi propriamente un’isola, poiché unita alla terra ferma da un lungo pontile carrabile. Su quel pontile transita tutti i giorni Elisabetta Maiorano, la protagonista del romanzo “Almarina” di Valeria Parrella. Elisabetta Maiorino è una cinquantenne, vedova, senza figli, insegnante. Raggiunge quotidianamente l’isola che contiene al suo interno un’altra isola, il carcere minorile, dove lei insegna matematica. E’ inevitabile, così, che pensieri, ricordi, sentimenti, sguardi sulle cose si confrontino di continuo con un ‘dentro’ e con un ‘fuori’: “Dentro: questo posto è meraviglioso – e fuori ci sta la città che ti costringe al tutto o al nulla […] Fuori vai mendico nel mondo […] – dentro: questo posto è meraviglioso, è tutto quello che i nostri ragazzi non hanno mai avuto […]”. La professoressa è persona sensibile, fa il suo lavoro con dedizione e vorrebbe che quei ragazzi, quando usciranno da lì, avessero un futuro migliore del loro pur breve passato (“Vederli andare via è la cosa più difficile, perché: dove andranno. Sono ancora così piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui.” Elisabetta vuole bene ai suoi alunni, probabilmente anche per un desiderio di maternità rimasto inespresso, per compensare una difficile solitudine. Sposatasi in tarda età non ha avuto figli. Con suo marito avevano pensato di adottarne uno, ma la morte improvvisa di lui ha infranto ogni progetto. Questo sentimento di maternità mancata, di ricerca di senso della vita, preme ancora più forte il giorno che arriva in classe Almarina, una ragazza rumena, picchiata e abusata dal padre, che il giudice ha ritenuto di affidare alla comunità di Nisida: “L’alunna nuova ha una mano irrigidita con cui stringe la penna, che la fa somigliare a certe donne vecchie rovinate dall’artrosi […] Devo sedermi di fronte a lei e aspettare finché quella mano tracci una riga sul foglio […] Dentro il foglio c’è dunque questo uomo che la violenta e poi le rompe le costole, suo padre.” L’arrivo di Almarina, l’affetto che si instaurerà tra loro, l’incontro di quelle due solitudini, significherà per Elisabetta una ritrovata ragione di vita (“Io mi sono legata ad Almarina così, mentre guardavamo il mare, e le ho raccontato che mio marito era un magnifico nuotatore”).
E’ davvero una bella storia, quella che la Parrella racconta in un romanzo di sentimenti, denuncia sociale, trepide speranze.
***
Mi chiamo Elisabetta Maiorano, e non è che me lo stia chiedendo qualcuno: sono io che me lo ripeto in testa ogni volta che arrivo al varco di Nisida (come mi ripeto in testa il codice del bancomat mentre sto ancora camminando verso lo sportello). Ogni volta che entro mi sento in colpa. Alla sbarra, quando mi fermo per farmi riconoscere, mi viene da abbassare gli occhi, mostro il viso senza davvero guardare in faccia l’agente, come se avessi la macchina carica di cocaina. E la vedo alzarsi con uno sforzo enorme, quella sbarra, come se la dovessi sollevare io, fosse colpa mia che Nisida è un carcere minorile, le avessi scavate con le mie mani le strade di tufo che fanno arrampicare su la macchina. Come se mi stessero facendo un favore.
Appena arrivo davanti a quella sbarra perdo ogni diritto civile, ogni sostanza acquisita nel tempo, non sono più nessuno, né una laureata, né un’insegnante che ha vinto concorsi, che ha fatto anni di supplenze al nord e sa rispondere male a chi non rispetta la fila. Quella che va a denunciare lo specchietto scassato, le gomme bucate, lo sportello rigato dalla chiave. («Perché signora, lei sa chi è stato?» «Sì lo so: un parcheggiatore abusivo sotto San Pasquale, che voleva i soldi e che gli ho detto che invece li davo a un musicista». «Mi sa che pure il musicista era abusivo»).
All’angolo della guardiola di Nisida mi lascio vivisezionare, ma è impressione solo mia, mi dico: ché tanta gente sale sopra alla mattina, educatori, insegnanti e maestri dei laboratori, e io ho pure la targa registrata, infatti mai che mi chiedano il perché. E forse manco lo sanno, loro, messi in servizio un giorno lì e il mese dopo dove, che saliamo la montagna del purgatorio, e quando scenderemo non saremo più gli stessi.
Elisabetta Maiorano. Da tre anni vado in giro con il passaporto invece che con la carta d’identità, perché sul passaporto non c’è scritto lo stato civile, e io ho ancora la carta su cui stamparono «coniugata» e non ho nessuna voglia di tornare all’anagrafe per farmela aggiornare.
(C’era un sacco di polvere che rendeva l’atmosfera ironica, mentre facevo la carta d’identità: impossibile crederci davvero. Gli impiegati erano indistinguibili dai cittadini, o forse no: erano più consunti, avevano maglioni che non sarebbero mai tornati di moda.
«Ma non si può mettere “omesso” a stato civile e lavoro?» «Signò, quando non volete far sapere che siete sposata usate il passaporto».
Io non ebbi la prontezza di rispondergli, né di ridere. Arrivo molto tempo dopo a capire cosa penso di quello che mi accade, sono più pronta all’azione che alla riflessione: solo, me ne andai frustrata. Poi, con la vedovanza, il consiglio si è rivelato utile).
Richiusa la sbarra alle spalle, mi sento più libera. Ho avuto il mio lasciapassare di occhi, ho superato il limite invalicabile altrimenti, e per il primo tratto ascolto il sollievo. È un sollievo da ogni cosa. Se voi sapeste cosa significa potersi girare un momento, nella tirata che anticipa il tornante. Fermarsi mentre il corpo continua, scala la marcia, gioca con la frizione, prepara la curva nel volante, mentre il corpo sale: trovarsi dopo la sbarra e prima del carcere, lasciando tutta la città sotto con le sue ansie: che sono le mie. Se voi sapeste, quando camminate per i decumani, pregate nella chiesa del centro direzionale isola E accanto al Palazzo di giustizia. Voi che state in vacanza, quelli che avete appena finito di parlare al convegno: io vi vorrei chiamare tutti verso ovest, farvi girare e dirvi che quella donna piena di angoscia che sta ascendendo Nisida non è una detenuta. È una donna che ha cinquant’anni e si è sposata tardi. È successo per tanti motivi, ma soprattutto perché è andata in giro a fare supplenze. È salita a Treviso, ha imparato a bere il vino bianco alla mattina, a guidare nella neve. Ha imparato a far passare il tempo, a ballare il tango a Frosinone, ha aiutato il bidello a stendere un lenzuolo, nel fine settimana, per proiettarci sopra un film. E quando è tornata si era fatto tardi assai.
Ma il punto non è nemmeno questo. Il punto è che prima del carcere e già oltre la sbarra se voi guardate bene lo vedete, che lei prova uno strano sollievo. Forse quelli che viaggiano sempre provano lo stesso sentimento quando l’aereo si alza in volo. E qui invece ad alzarsi in volo c’è qualche gabbiano, e uno scoglio come un pinnacolo nel punto in cui la strada svolta. Intanto c’è silenzio. Il silenzio che non si sente mai: fuori dalle rotte, lontano da qualunque strada, e mare inaccessibile tutto d’intorno, che a destra finisce dentro il Vesuvio, e a sinistra dentro l’Italsider. Ma oggi è tutto spento: vulcano e acciaieria.
Il momento del conforto è nel tempo della svolta, poi già mi si parano davanti gli edifici della ceramica, i laboratori. Dentro la sbarra ma ancora fuori dal carcere, nella mattina fredda, l’aria fredda, io il bagagliaio ingombro della vita faticosa: vedo ragazzi chiusi nei loro cappucci, nelle loro giubbe fumano ai lati del viale. Non ricordo le loro facce, non ne riconosco nessuno, loro mi salutano: una macchina, un insegnante, un cane, un ospite da salutare sempre. Riconosco le loro funzioni: questi sono gli «articolo 21», persone in semilibertà che tornano dentro solo per dormire. All’interno dello stesso carcere esistono dei gironi, e i detenuti vi appartengono al punto da mutuarne il nome. Si formano, non detti da nessuno, rispetto al tipo di detenzione, quale la lunghezza della condanna, da quanto tempo stanno dentro, il modo di condurla. «Il quarto reparto», dicono di quelli che possono mangiare in camera senza scendere al refettorio. Gli articolo 21 mi guardano attraverso il parabrezza, e io devo riposizionarmi al loro sguardo. Non devo lasciar spegnere la macchina, devo trovare subito parcheggio, saper fare la manovra. Devo essere competente, perché mi stanno guardando e il loro giudizio mi sfianca.
Scelgo il parcheggio basso, quello più lontano che sicuramente è vuoto. Ed ecco di nuovo la tregua: sale da una zona d’ombra che il promontorio di Posillipo getta sul Vesuvio, nascondendone una gobba. E dal fatto che laggiù, oltre tutta quell’acqua, si vede Capri. Capri è un posto dove la gente sta bene, i turisti salgono con la funicolare, si fermano in piazzetta. Ci vivono gli stranieri tutto l’anno, nel liceo classico si parla inglese, russo e greco antico, quattro bistecche 150 euro. Capri d’inverno dà il suo meglio: da qui si vede, è chiaro. E poi tra poco devo lasciare il cellulare, e non sarà colpa mia.
Mentre avanzo verso i vetri antiproiettile, sento che finalmente mollerò gli ormeggi da quella vita di usura che mi è capitata. È il regolamento, io non c’entro: per le prossime cinque ore non sarà responsabilità mia: come ciascuno che entri a Nisida torno libera, torno bambina.
La guardia mi chiede nome e cognome, è scontrosa, non sorride, il suo fare non è in alcun modo accomodante. Altre volte, altri giorni, guardie migliori, un sorriso in più.
Mi chiamo Elisabetta Maiorano, credo che ci fosse un’ambizione monarchica da qualche parte nel mio passato. Del resto, l’unica cosa che ho ereditato è una scatola da scarpe piena di posate d’argento. Stavo preparando il concorso, vivevo in pigiama la maggior parte del tempo e a intervalli regolari mi infilavo giù per il cortile delle statue e sbucavo sulla biblioteca universitaria. Mentre stavo fotocopiando qualcosa, mentre avevo le polacchine ai piedi, mentre a via Mezzocannone pioveva, i ladri entrarono nella mia casa di studente e quella scatola fu l’unica cosa che non portarono via.
(«Sono stati gli zingari: gli zingari odiano l’argento», disse con certezza la vicina.
E poi, il poliziotto: «Ma tu perché vivi da sola?»
«Ma lei perché mi dà il tu?»)
Mi danno una chiave che corrisponde a un piccolo armadietto. Della mia borsa faccio un sacco, l’ammacco, la schiaccio, ce la faccio entrare, do la mandata e vado. Dentro ci lascio la solitudine della figlia unica, l’orecchio dolente di una malattia esantematica, l’ombra che mi terrorizzava al pomeriggio, proiettata sul muro della stanzetta. Quella risposta inopportuna per cui mia madre non mi parlò per giorni. Tenersi le mani addosso quando non le vuoi davvero, volere di più le mani addosso e non saperle chiedere. Il primo attacco di panico una notte in albergo a Parigi, dopo la maturità. E la vacanza con un uomo più adulto di me, nella quale piansi tutti i giorni.
Eppure stamattina dopo vestita, vinto il freddo della casa, ho nascosto le occhiaie sotto una striscia di correttore, spazzolato i capelli a testa in giù. L’ho fatto per essere scrutata dagli alunni, perché le femmine potessero vedere in me qualcosa che conoscono, che affinano nelle celle. Perché i maschi potessero riconoscere un’immagine di donna che rispettano. Ma poi queste sono idee mie, chissà per dove passa il rispetto: non è di loro che parlo, io di loro non so nulla. Parlo di me. Di come mi faccio forte per non crepare. Quando mi sono guardata allo specchio ho visto una donna stanca. Una vecchia stanca in pieno hangover che non poteva tener su troppo il mascara perché piangere le era più naturale che truccarsi. Una vecchia: così non pensavo di essermi portata dietro tutta quell’infanzia da stipare nell’armadietto.
[da Almarina di Valeria Parrella, Einaudi, 2019]
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