29/05/2015
La Grande Guerra suscitò aspettative palingenetiche e rabbiose frustrazioni. Chi aveva vissuto la terribile avventura si sentiva legittimato a battersi per una società ben diversa da quella giolittiana. Gli interventisti democratici, minoritari, avevano visto nel conflitto l’atto finale del Risorgimento. I combattenti più sensibili all’orgoglio nazionale avvertivano l’inadeguatezza dei risultati rispetto agli immensi sacrifici subiti e ritenevano mutila la vittoria conseguita. Un patriottico reducismo si opponeva agli attacchi di un ribellismo convulso e minaccioso. Chi s’era schierato per la neutralità faceva leva sulla crisi per incassare i frutti del consenso. L’atroce scontro all’ultimo sangue aveva originato inimicizie destinate ad alimentare la “guerra civile europea”, una distruttiva guerra dei trent’anni tra 1915 e 1945. La violenza era stata sdoganata quale strumento di lotta. Dilagava ovunque una “brutalizzazione della vita politica post-bellica” – l’espressione è di George L. Mosse – che contagiava tutti. Il quadriennio 1919-1922 fu cruciale e non solo perché registrò la nascita del movimento fascista. Gabriele Maccianti in un volume che condensa anni di ricerche (“Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922”, edizioni il Leccio) tratteggia con ammirevole equilibrio un quadro compiuto. Intreccia documenti provenienti da archivi pubblici e privati, accompagna la sue pagine con immagini mirate, concede quanto basta a inflessioni narrative e a sobri squarci biografici.
Del resto già con “La lenta corsa del tempo”(2006) egli aveva offerto un affresco avvincente del difficile rapporto intrattenuto da Siena con la modernità. Sapendo bene che una “storia locale” rischia di esaurirsi in una sequenza di aneddoti o di dar luogo ad artificiosi paradigmi se non se ne mettono in luce legami, riflessi, irradiazioni con apporti neppur soltanto, ormai, nazionali. Se non se ne individuano le peculiarità, esaminando le turbolenze prossime, e influssi, innesti, incursioni. “L’intervento appare ai giovani interventisti – annota Maccianti – come la salutare rottura di un mondo monotono e infiacchito”. Le popolazioni erano state “poco favorevoli alla guerra”, soprattutto nelle campagne. Gli acuti rapporti del prefetto sono espliciti in proposito e di fronte al marasma manifestano preoccupazioni serie: “La forza pubblica di cui dispongo è minima nei confronti dei bisogni di tutta la provincia”. Il Fascio si costituisce a Siena il 2 ottobre 1919 inquadrando uno sparuto gruppetto d’una quindicina di fanatici egemonizzato da uno studente di Legge calabrese, Manlio Ciliberti, che cederà presto la guida a più focosi protagonisti.
Nelle elezioni del novembre 1919, le prime tenute col metodo proporzionale, il Psi registra sia in città (con il 41,3%) sia in provincia ( con il 56,4%) un’ottima affermazione. I Popolari di don Sturzo, al loro esordio, incassano il 12% dei suffragi. Il vecchio ceto dirigente liberale si disgrega e perfino un loro navigato esponente come Gino Sarrocchi, secondogenito del famoso scultore, si barcamena nel difendere le ragioni dell’intervento. Non mancavano tra le loro file personalità di tutto rispetto quali l’abile sindaco Emanuello Pannocchieschi d’Elci. Ma era l’ora dei partiti di massa. E il confronto non consentiva mediazioni. L’avanzata della sinistra alle amministrative del 1920 ingenera una Grande Paura. Solo i Comuni di Siena, Castelnuovo Berardenga, Gaiole, Radda. Radicofani e San Casciano dei Bagni si salvano dall’assalto rosso. Un sovversivismo confuso e parolaio suscita allarme.
L’aristocrazia terriera e la borghesia cittadina sentono minacciati privilegi secolari. Si coagula una Santa Alleanza, “una unità ideologica urbana contro la campagna”(Gramsci). Nei primi mesi del ’21 c’è un boom di iscrizioni al movimento fascista che sta per trasformarsi in partito, rigidamente militarizzato. Perfino un colto nazionalista come Fabio Bargagli Petrucci simpatizza e lo stesso conte Guido Chigi Saracini, che dapprima finanzierà e più avanti non nasconderà uno sprezzante fastidio: nel ’38 è classificato “non fascista”. Alfredo Bruchi, il diplomatico uomo del Monte, prenderà la tessera solo nel ’27, a partita vinta. L’Arma dei carabinieri svolge ha un ruolo nefasto, reprimendo e uccidendo a senso unico. Giulio Cavina, “un robusto romagnolo dagli occhi grigi” segretario della Camera del Lavoro, appare nelle vesti di un novello Brandano, profeta di una rivoluzione impossibile. Pietro Nenni riflettendo a mente fredda, dall’esilio, su “diciannovismo” e dintorni non esiterà a scrivere che ad “una rivoluzione di parole” avrebbe risposto “una controrivoluzione di sangue”. “Il partito – aggiunse – era impreparato a sostenere, sul terreno della guerra civile che predicava essere il logico sbocco della situazione, il minimo urto”. Lelio Basso emise una sentenza non meno amara su un partito le cui roboanti direttive “non ebbero – commentò –alcuna influenza sulla situazione reale”, poiché erano “un miscuglio affrettato e disorganico di parole d’ordine rivoluzionarie e riformiste”.
“Senza le follie del massimalismo, la reazione fascista e il suo successo rimarrebbero inesplicabili” ha scritto Roberto Vivarelli nell’epilogo (2012) della sua imprescindibile ricerca sulle origini del fascismo. L’esasperazione che conduceva a attacchi disperati o enfatizzava un irragionevole radicalismo proveniva – è comodo dimenticarlo – da ceti tenuti ai margini e spediti allo sbaraglio in una guerra apocalittica. La violenza dello squadrismo nero fu anche a Siena sostanziosamente foraggiata e tollerata da un apparato statale in prevalenza connivente. I cattolici impegnati in politica riconobbero ai fascisti “il merito di aver liberato l’Italia dall’incubo comunista” e abbozzarono qualche riserva, dichiarando inaccettabile, con le parole dell’energico don Orlandi, il “picchiar sodo” a imitazione dei metodi usati dagli avversari. Un qualche durevole accordo tra socialisti e popolari non era – ahimè – neppur concepibile. Nel volume s’indagano con minuzia contrasti e dibattiti interni al blocco fascista, tutt’altro che omogeneo. Il normalizzatore per eccellenza fu senza dubbio l’amiatino Adolfo Baiocchi. Il ruolo di Giorgio Alberto Chiurco appare assai ridimensionato. E sul finale l’autore insegue le traiettorie di vincitori e vinti soffermandosi anche sul faticoso emergere personalità coraggiose e combattive, malgrado una paludosa “continuità di sistema”.
Articolo pubblicato su “Il Corriere di Siena” del 20 maggio 2015
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