04/03/2015
Verrebbe voglia di enunciare un teorema (con rare eccezioni): in Toscana quanto più una città si ritiene dotata di un marcato profilo storico, tanto più è allergica a progetti dissonanti con la tradizione. Sarebbe semplicistico scrivere di una generica diffidenza per l’architettura contemporanea, poiché inserimenti di corriva e pretenziosa edilizia sono stati tollerati purché timidi e banali. Edilizia appunto, che non ha niente a che fare con un’aggiornata e innovativa cultura architettonica. E spesso neppure riconosciuti maestri che hanno operato con successo in luoghi degni della massima cura sono riusciti a sconfiggere il mugugnante riflesso conservatore che ha fatto preferire lo status quo al coraggio dell’innovazione. Esemplare è stata la vicenda di Giancarlo De Carlo (1919-2005), protagonista del dibattito teorico internazionale, attivo a Urbino e Venezia – per citare solo due delicate situazioni –, e ostacolato o incompreso nei centri toscani dove pure aveva elaborato proposte di lungimirante incisività: restate sulla carta o lodate con dubbio rincrescimento.
Ora un libro documentassimo, scritto con passione critica di testimone da Carlo Nepi (Una città laboratorio, Salvietti & Barabuffi editori-Fondazione Monte dei Paschi, pp. 235, Siena 2013), evoca i quasi vent’anni senesi segnati da slanci e delusioni. Siena è stata la città dalla quale mosse l’itinerario non fortunato di un intellettuale che affrontò le sfide con il gusto dell’audace e irriverente provocazione. L’architetto genovese cominciò a frequentare Siena con sguardo partecipe del destino della città nel 1973, in occasione di un convengo su “Centri storici e territorio” organizzato dal Comune. Fin d’allora avvertì l’incontro come una chiamata: “Dovevo fare qualcosa che avrebbe introdotto dentro questa città alcune idee che avrebbero circolato, sarebbero state riprese”. Forse si profilava l’occasione di lavorare dove l’ammirato Francesco di Giorgio Martini aveva lasciato alcune delle sue opere più celebrate, come a Urbino. E difatti il quartiere di nuovo impianto che fu chiamato a immaginare fu concepito secondo una dinamica in tutto simile a quella esperita nei collegi universitari della capitale del Montefeltro: una raggiera di abitazioni piantata nel verde e digradante con l’andamento tipico degli insediamenti medievali. Un brano di città che avrebbe dovuto mischiare insieme all’edilizia popolare istituti universitari, palestre, uffici, e un centro civico che sarebbe in seguito stato affidato alla misurata saggezza di Giovanni Michelucci.
Ebbene: il quartiere di San Miniato ha preso forma, ma con una tale serie di variazioni e aggiunte che De Carlo si è rifiutato di includerlo nell’elenco delle imprese di sua paternità. “Io – confesserà amareggiato – mi ero impegnato molto: probabilmente in quella circostanza ho fornito uno dei miei apporti più qualificati”. Di chi la responsabilità del “lento inabissamento” di quel piano? Di una politica timorosa e preoccupata del consenso immediato e di una prassi amministrativa che non riuscì ad adeguarsi agli obiettivi della composita committenza. Sorprende che in epoca di forte rivendicazione del primato assembleare nei processi decisionali, De Carlo avesse sottolineato la necessità che a gestire un sistema tanto complesso fosse stata una sorta di agenzia di riconosciuta autorevolezza. I benpensanti liquidarono le ambizioni con la sprezzante accusa di utopismo. “L’utopia – aveva scritto De Carlo – così come è comunemente intesa, è un’immagine impossibile perché deriva da una completa alterazione del contesto: se invece si tiene conto di tutte le variabili in gioco e si suppone che le loro relazioni possano essere diverse – perché di fatto potrebbero esserlo – allora l’utopia è realistica”. Per non isolare il quartiere dall’indefinita zona nord della città aveva ipotizzato una sorta di linea metropolitana. Apriti cielo! Sembrava si volesse sconvolgere l’universo. Quanto alla trasformazione dell’area attorno alla Fortezza in un grande parco urbano si disse di sì e ogni tanto la categoria riemerge, ridotta ai minimi termini e smembrata in microinterventi di ininfluente peso. De Carlo dedicò i corsi estivi del suo I.l.a.u.d. (International laboratory of architecture and urban design) per quattro delle sue nove edizioni senesi (1982-1990) all’interpretazione degli spazi dell’antico ospedale di Santa Maria della Scala, da riconvertire a finalità museali e culturali. Allorché si trattò di passare al progetto vero e proprio non fu neppure invitato al concorso, anche se aveva visto lontano: “Santa Maria della Scala, io credo, sarà recuperato quando conterrà, oltre le attività museali, altre attività complementari delle attività museali che, articolandosi, a un certo punto diventano attività normali della città”. La sequenza dei malintesi, delle diffidenze, dei tralignamenti induce Nepi a conclusioni severe: l’idolatria verso una tradizione nel caso senese irrigidita in paradigmi neogotici sfocia o in una sorda resistenza o nel “violento rifiuto di ogni forma di linguaggio contemporaneo”.
Non diverso nella sostanza fu il destino di altri progetti di De Carlo incentrati su temi di riqualificazione urbana e di riconversione di strategiche aree industriali, come la ex-Breda a Pistoia o la zona circostante il centro storico di Castelfiorentino. Pistoia sarà un problema affrontato con l’impostazione progettuale ‘tentativa’ perseguita dai giovani del fervido laboratorio internazionale. Il progetto-guida per il centro storico di Lastra a Signa (1988-89), che coinvolse studenti della Facoltà di Genova, dove, nel frattempo, De Carlo era andato ad insegnare, lasciando Venezia, non ebbe ascolto più attento. E accantonato fu il progetto-guida delle Piagge a Firenze (2003-2004): un classico quartiere di periferia accanto al Parco delle Cascine, ma non in armonizzata continuità. Applaudito dapprima con esaltanti entusiasmi, fu smontato e reso impalpabile: archiviato, per quell’invincibile disagio che spesso ha bloccato originali e difficili idee ed ha finito per privilegiare clamorose e isolate architetture da esporre in vetrina o da discutere all’infinito senza farne di nulla.
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