Quando scrisse “La forza del carattere” (1999), il grande filosofo e psicoanalista junghiano James Hillman aveva da poco superato i settant’anni. Per lui parlare della vecchiaia, dei cambiamenti che essa induce nel corpo e nell’anima, delle trasformazioni che determina a livello di desideri, preoccupazioni, progetti, si traduceva, inevitabilmente, nel parlare della “propria” vecchiaia: “Un libro sull’ultima parte della vita non può essere uno studio oggettivo, indifferente rispetto a colui che lo scrive. C’entra anche la sua vita, sicché la scrittura, se viene davvero dal cuore, dirà qualcosa anche dello scrittore”. Affrontata a parte senis, ogni riflessione di ordine generale lascia sempre intravedere le tracce e i sedimenti di una biografia privata.
Gli adolescenti non scrivono intorno alla vecchiaia, non raccontano la vecchiaia – non possono farlo, non avendone ancora fatta esperienza – ma alla vecchiaia, specie alla loro vecchiaia, ci pensano, molto più spesso di quanto gli adulti ritengono. Una simile affermazione può apparire sorprendente. I millennials, infatti, vivono appiattiti sul presente, un presente assoluto, raramente aprono una finestra sul loro passato, faticano a rivolgere lo sguardo al futuro, che nel giro di pochi decenni è scaduto da promessa a paura, hanno giornate stipate di impegni, se non si allenano o se non studiano o se non acquistano l’ultimo modello di scarpe da ginnastica, scrivono un sms o una mail, chattano, aggiornano il proprio stato, caricano fotografie, guardano video, ascoltano musica sul loro smartphone. Perennemente connessi, così lontani l’uno dall’altro (ognuno nel chiuso della sua cameretta), eppure così vicini l’uno all’altro (grazie alla tecnologia digitale), i nostri ragazzi vivono sulla soglia dell’attimo. Dunque, cosa meno della vecchiaia, una vecchiaia divenuta oltretutto, coi progressi in campo medico, “interminabile”, come scrive Umberto Galimberti in “La parola ai giovani” (2018), può catturare il loro interesse, può guadagnare la loro attenzione? Eppure, gli adolescenti alla fase terminale della vita ci pensano, ci pensano spesso.
Una conferma in tal senso l’ho avuta l’altro giorno mentre che leggevo in classe un passo del “Cato Maior de senectute” di Cicerone. All’improvviso, interrompendo il commento, ho domandato ai miei studenti se loro alla vecchiaia ci pensano mai. Ero convinto che mi avrebbero risposto di no, che si sarebbero messi a ridere oppure che, di rimando, mi avrebbero chiesto “Perché mai dovremmo farlo?”. Invece mi hanno detto che ci pensano, eccome se ci pensano. L’idea non li preoccupa, non li angoscia. Certo, non è un pensiero costante ma, in ogni caso, quando si presenta alla loro mente, non lo rimuovono, non lo cacciano, come si caccia una mosca o un rimorso, anzi, può capitare che in esso trovino riposo, che in esso si addormentino. Anziani, mi confidano, si vedono uguali ad ora, anziani, aggiungono, si immaginano circondati da figli e da nipoti, perché la loro unica paura è, nel crepuscolo dei giorni, quella di ritrovarsi soli, attraversare la senectus soli, morire soli.
L’arco temporale che abbraccia la giovinezza e l’età adulta se lo attendono privo di sorprese. Una volta entrati nel mondo del lavoro, saranno come nuotatori costretti a muoversi ognuno nella propria corsia, senza alcuna possibilità di scartare di lato, di arrestarsi, di cambiare stile, a meno che a esigerlo – a imporlo – non sia l’allenatore a bordo vasca. D’altra parte, cresciuti in una società che richiede a ogni suo membro efficienza e produttività, sono consapevoli del fatto che per l’intero corso dell’esistenza saranno condannati ad essere un semplice ruolo, una mera funzione, non una persona, capace di prendere in mano e di determinare il proprio destino. Di conseguenza, è inevitabile che da qui a cinquant’anni si vedano uguali ad ora. Certo, coi capelli bianchi, certo rallentati nei movimenti. Ma sostanzialmente identici, forse perfino confortati dal fatto che, una volta che avranno lasciato il lavoro, cosa che nell’età della tecnica equivale a diventare invisibili, potranno prestare ascolto, seppure tardivamente, alle proprie passioni e alle proprie vocazioni. Tutti i progetti fatti abortire tra i venti e i trent’anni, tutti i legami d’affetto barattati con legami di convenienza, tutte le occasioni di autenticità (e dunque di autorealizzazione) gettate al vento per paura o per vile calcolo, rinvengono nella vecchiaia una seconda possibilità. I millennials lo hanno compreso. Per questo il futuro lontano né li preoccupa né li spaventa. L’autentica minaccia, col suo seguito di noia e di alienazione, oramai si stende tra la fine dell’adolescenza e l’inizio della vecchiaia. Questa è la colpa che nessun giovane potrà mai perdonarci: avere noi adulti (come genitori, come insegnanti, come cittadini-sudditi) contribuito a rendere l’epilogo del dramma preferibile al dramma stesso, avere donato bellezza all’uscire di scena, ritirarsi in camerino e, finalmente, spogliarsi della maschera (delle maschere) che troppo a lungo gli abbiamo fatto indossare.