Claire Keegan, insignita nel 1998 del Premio Rooney per la letteratura irlandese, è pregevole scrittrice di romanzi brevi. Sfidando l’ignominia del buonismo, racconta belle storie dove il bene risulta una pratica normale, che sta dentro le cose della vita. L’anno scorso, in prossimità del Natale, uscì in Italia “Piccole cose da nulla”, e già il titolo lascia intendere questo ancoraggio all’ordinarietà. Il protagonista, che di mestiere fa il legnaiolo, giusto la settimana antecedente il Natale, con il suo camion gira, instancabile, campagne e villaggi per recapitare legna da ardere, torba, carbone. Vede e conosce gente, pensa e riflette su come vanno certe cose e su quel po’ di coraggio necessario per cambiarle. Insomma, “si ritrovò a domandarsi che senso aveva essere vivi se non ci si aiutava l'uno con l'altro”. Quest’anno, sempre per Einaudi Stile Libero e per la traduzione di Monica Pareschi, in vista delle feste natalizie è andato in libreria “Un’estate”. Titolo fuori stagione, si dirà; ma non per la storia che vi si narra, in perfetta sintonia con i significati di cui il Natale è portatore: uno su tutti l’accoglienza. Dal libro è stata tratta anche la sceneggiatura di “The Quiet Girl”, candidato agli Oscar 2023 come miglior film straniero. La vicenda si svolge in una fattoria della campagna irlandese verso la fine degli anni Settanta. È là che vivono i coniugi John e Edna Kinsella, una coppia senza figli che per un’intera estate ospita una bambina proveniente da una famiglia di conoscenti fin troppo numerosa e dalla cruda esistenza. La madre è nuovamente prossima a partorire, un motivo in più perché la bimba venga sistemata altrove. Quella vacanza estiva, inizialmente vissuta dalla piccola protagonista con il silenzioso tormento dell’abbandono, le rivelerà, invece, qualcosa di sconosciuto: l’esistenza di una grammatica dei sentimenti. Di come esistano parole, modi d’essere, gesti, consuetudini che esprimono premura, affetto, fanno sentire amati. Questo, infatti, dimostrano i coniugi Kinsella nei suoi confronti. Al punto che quando, a fine estate, arriva il giorno della partenza, “una parte di me vuole che mio padre mi lasci qui mentre un’altra vuole che mi riporti a casa, alle cose che conosco”. Magari con l’intento che quelle stesse cose possano trovare modi nuovi per essere dette e vissute, con il lessico appena appreso dell’amore.
***
Una domenica mattina presto, dopo la prima messa a Clonegal, invece di portarmi a casa, mio padre si inoltra per la contea di Wexford e guida in direzione della costa: è da lì che viene la famiglia di mia madre. È una giornata caldissima, soleggiata, con chiazze d’ombra e improvvisi sprazzi di luce verdognola lungo la strada. Attraversiamo il paese di Shillelagh, dove mio padre ha perso la nostra Shorthorn rossa a carte, e a Carnew passiamo davanti al mercato dove il tizio che aveva vinto era andato immediatamente a vendere la vitella. Mio padre butta il cappello sul sedile accanto a lui e si mette a fumare. Io mi sciolgo le trecce e mi sdraio sul sedile posteriore, a guardare fuori dal lunotto. In certi punti il cielo è sgombro, azzurro. In altri è come se qualcuno ci avesse disegnato le nuvole col gesso, ma perlopiù è un miscuglio furibondo di cielo e alberi tutto scarabocchiato dai cavi dell’alta tensione, dove sfrecciano, di tanto in tanto, piccoli stormi di uccelli bruni che un attimo dopo spariscono.
Chissà com’è, la casa dei Kinsella. Vedo una donna alta sopra di me, che mi fa bere il latte ancora caldo dopo la mungitura. Vedo una versione più improbabile della stessa donna in grembiule, che versa in una padella il composto per le frittelle, chiedendomi se ne voglio un’altra, come fa a volte mia madre quando è di buonumore. L’uomo non sarà certo più alto di lei. Mi porterà in paese col trattore e mi comprerà Red lemonade e patatine. Oppure mi farà pulire i capannoni del bestiame, raccogliere i sassi, strappare l’ambrosia e la romice che infestano i campi. Lo vedo tirare fuori dalla tasca quella che spero sia una moneta da cinquanta pence e invece è il fazzoletto. Chissà se abitano in una vecchia casa di campagna o in una di quelle nuove a un solo piano, chissà se hanno il gabinetto fuori o un bagno vero e proprio con la tazza e l’acqua corrente. Mi immagino sdraiata in una stanza al buio con altre ragazze, a dire cose che la mattina dopo non ripeteremmo mai.
Sembra passato un secolo quando la macchina rallenta per svoltare in una stretta stradina asfaltata, poi c’è un sussulto mentre le ruote passano rumorosamente sopra le barre metalliche di una griglia per il bestiame. Folte siepi squadrate fiancheggiano la strada su entrambi i lati. In fondo c’è una lunga casa bianca e alberi con i rami che toccano terra.
– Pa’, – dico, – gli alberi.
– E allora?
– Hanno qualche malattia, – dico io.
– Sono salici piangenti, – dice lui, e si schiarisce la gola.
Nell’aia alte finestre scintillanti riflettono il nostro arrivo. Mentre guardo fuori dal finestrino mi vedo riflessa con i capelli sciolti, in disordine come una zingara, ma mio padre, al volante, sembra mio padre e basta. Un grosso cane slegato, col manto tutto chiazzato dall’ombra degli alberi, abbaia due o tre volte, scontroso e svogliato, poi si accuccia davanti alla porta e si gira a guardare l’uomo che ha fatto capolino dietro di lui. Ha un corpo squadrato come gli uomini che disegnano a volte le mie sorelle, ma ha le sopracciglia bianche, in tono con i capelli. Non assomiglia per niente ai parenti di mia madre, che sono tutti alti e con le braccia lunghe, e mi chiedo se non abbiamo sbagliato casa.
– Dan, – dice, irrigidendosi, – tutto a posto?
– John, – dice pa’.
Rimangono lì impalati a contemplare l’aia per un momento, poi si mettono a parlare della pioggia: del fatto che piove troppo poco, e i campi hanno bisogno di pioggia, e il prete a Kilmuckridge proprio quella mattina ha pregato che piova, e un’estate così non si era mai vista. C’è un attimo di silenzio e mio padre ne approfitta per sputare, poi la conversazione passa al prezzo del bestiame, la Comunità economica europea, la sovrapproduzione di burro, il costo della calce e dell’antiparassitario per le pecore. Io ci sono abituata, a questo modo che hanno gli uomini di non parlare di niente: a loro piace sollevare una zolla da un prato col tacco di uno scarpone, dare una manata sul tettuccio di una macchina prima che parta, sputare, sedersi a gambe divaricate, come se non gli importasse niente.
Quando esce, Mrs Kinsella non li guarda nemmeno. È ancora più alta di mia madre, con gli stessi capelli neri, anche se i suoi sono corti, appiccicati alla testa come un casco. Ha addosso una camicetta stampata e un paio di pantaloni marroni larghi. Qualcuno apre la portiera della macchina, mi tirano fuori, e lei mi bacia. Schiacciata contro la sua, la mia faccia sotto quei baci si infiamma.
– L’ultima volta che ti ho vista eri in carrozzina, – dice facendo un passo indietro, in attesa che io risponda.
– La carrozzina è rotta.
– Cos’è successo?
– Mio fratello la usava come carriola e si è staccata una ruota.
Lei si mette a ridere, si lecca un pollice e mi sfrega via qualcosa dalla faccia. Sento il pollice, più liscio delle dita di mia madre, che mi strofina chissà cosa. Quando il suo sguardo si posa su quello che ho addosso, vedo attraverso i suoi occhi il mio vestito di cotone leggero, i sandali impolverati. Per un momento nessuna delle due sa cosa dire. In quel momento una strana, vigorosa folata di vento attraversa l’aia.
– Vieni dentro, leanbh.
Mi porta in casa. Un istante di buio nell’ingresso: quando esito, esita anche lei con me. Poi attraversiamo il tepore della cucina e lei mi dice di sedermi, di fare come se fossi a casa mia. Sotto il profumo di qualcosa che cuoce nel forno c’è una punta di disinfettante, candeggina forse. Toglie dal forno una crostata di rabarbaro e la mette a raffreddare sul piano della cucina: sciroppo bollente sul punto di traboccare, foglie sottili di pasta frolla saldate alla crosta. Dalla porta entra una corrente fresca ma qui è caldo, immobile, pulito. Anche le alte margherite sono immobili come il vaso che le contiene. Non c’è traccia di bambini, da nessuna parte.
– E allora, come sta la mamma?
– Ha vinto dieci sterline alla lotteria.
– Ma dài.
– Sì, – dico. – Abbiamo mangiato tutti la gelatina di frutta col gelato e ha comprato una nuova camera d’aria e il necessario per riparare la bicicletta.
– Ma che bello.
– Sì, – dico io, e sento di nuovo i denti di ferro del pettine sulla testa stamattina presto, la forza delle mani di mia madre mentre mi fa le trecce strettissime, la sua pancia sulla mia schiena, dura per il bambino che deve nascere. Penso ai pantaloni puliti che mi ha messo in valigia, alla lettera, e a quello che ci sarà scritto. Li ho sentiti che dicevano: «Quanto tempo dovrebbero tenerla?»
«Non possono tenerla tutto il tempo che vogliono?»
«Devo dirgli così?» ha chiesto mio padre.
«Di’ quello che ti pare. Tanto lo fai sempre».
Mrs Kinsella riempie di latte una caraffa smaltata.
– La mamma avrà parecchio da fare.
– Aspetta che vengano a tagliare il fieno.
– Non l’avete ancora tagliato? – dice lei. – Ma non è un po’ tardi?
Quando gli uomini entrano dall’aia diventa tutto buio per un attimo, poi torna a schiarirsi appena si siedono.
– Allora, signora, – dice pa’, allontanando una sedia dal tavolo.
– Dan, – dice lei, con un tono diverso da prima.
– Oggi si cuoce.
– Fa un bel caldo, sì –. Lei si gira a guardare il bollitore, in attesa.
– Mi sa che ai campi non farebbe mica male un po’ d’acqua, – dice lui.
– Una volta che attacca poi non smette più –. Guarda il muro, come se ci fosse appeso un quadro, e invece non c’è nessun quadro, solo un grosso orologio di mogano con due lancette e un grosso pendolo di rame, che oscilla avanti e indietro.
– Però è stata lo stesso una buona annata per il fieno. Mai vista una roba così – dice pa’. – Ho il fienile che scoppia. Mi sono quasi spaccato la testa contro le travi del soffitto per buttarcelo dentro tutto.
Chissà perché mio padre racconta bugie sul fieno. Ha l’abitudine di mentire su cose che sarebbero belle, se fossero vere. Da qualche parte, più in là, qualcuno ha acceso una motosega e per un po’ si sente un ronzio fortissimo in lontananza, ...
[da Un’estate di Claire Keegan, traduzione di Monica Pareschi, Einaudi Stile Libero, 2023]
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