Un confine senza valore prescrittivo. I giovani e il limite

Francesco Ricci

27/11/2017

“Il nostro tempo non sembra conoscere più l’ombra tetra dei tabù. L’enfasi della libertà da ogni vincolo sembra aver demolito il rispetto nei confronti del senso del limite che l’esistenza del tabù indicava”. Inizia così “I tabù del mondo”, l’ultimo libro di Massimo Recalcati, che si propone di illustrare (e ripensare) la progressiva erosione, determinata dalla modernità, di quel complesso di prescrizioni, leggi, ordinamenti, i quali per secoli hanno costituito, per l’agire dell’uomo, argini e soglie. Di questo rifiuto del limite – di questa perdita del senso del limite –  gli adolescenti del terzo millennio rappresentano l’incarnazione più completa, senza neppure rendersene conto. Conoscono una libertà di cui nessun’altra generazione prima di loro ha potuto disporre; sono testimoni dei continui e velocissimi progressi della tecnologia – nel campo della medicina, nel campo delle comunicazioni –, che dimostrano con la forza dell’evidenza che l’impossibile di oggi altro non è che il possibile di domani; sono indotti, dalla pubblicità e dalla televisione, a sentirsi sempre in competizione, a desiderare di eccellere, di imporsi sugli altri; crescono e a lungo restano all’interno di una famiglia “adolescente”, come l’ha definita lo psicoanalista Massimo Ammaniti, contraddistinta da rapporti vischiosi e dalla sporadicità dei “no” che i genitori dicono ai figli, al punto che non sono pochi fra loro quelli che si possono riconoscere facilmente nel passo che segue, tratto da “Il conformista” di Alberto Moravia: “Ma i genitori non l’avevano mai punito che egli ricordasse: e questo non tanto per un concetto educativo che escludesse la punizione, quanto, come capiva vagamente, per indifferenza”.

Di conseguenza, la parola “limite” non suggerisce più agli adolescenti qualcosa che né può né deve essere oltrepassato; piuttosto evoca la frontiera, il confine, il posto di blocco, che già si stanno lasciando alle spalle e che presto si farà memoria, forse perfino oblio, ma che, in ogni caso, vedrà andare completamente perduto il valore prescrittivo che originariamente possedeva. D’altra parte, come si legge in “Laeti et errabundi”, una delle liriche più belle di Paul Verlaine, “Il limite / una volta varcato, elimina, / lo dice Ponsard, ogni limite”.  Così accade che non ci si ferma più davanti a niente, all’interno di un’abitazione privata e di un’aula scolastica, per strada e in un locale notturno. La propria timidezza, le proprie paure, la disabilità fisica o mentale di un compagno, l’età avanzata di una persona, la debolezza, figlia dell’indigenza o della solitudine, di un clochard, i legami di sangue, il rispetto dovuto a ciò che né ci spetta né ci appartiene: niente pare salvarsi dinanzi al desiderio (cieco) di possesso del soggetto. E laddove la naturale introversione potrebbe trattenere i giovani al di qua del “salto”, intervengono – a determinare azioni violente e aggressive –  l’istinto gregario, l’assunzione di pasticche accompagnate da una grande quantità d’alcol, il senso di impunità che i genitori, assecondandoli e difendendoli sempre, hanno generato nei figli.  

Personalmente ritengo che ci sia qualcosa di drammaticamente ineluttabile in questo processo.  Il desiderio di oltrepassamento del limite, infatti, è inscritto nel Dna dell’uomo occidentale, che –   dato estremamente significativo – ha in Prometeo, in Ulisse e in Faust i suoi eroi. E ciò vale tanto per le grandi imprese (le esplorazioni geografiche, lo sbarco sulla Luna, i progressi tecnologici), che possiedono una valenza universale, quanto per le azioni più minute (quelle concernenti il nostro quotidiano), che possiedono una valenza individuale. In entrambi i casi, però, questo tendere all’illimitatezza è destinato a produrre frustrazione e, prima o poi, a rivelarsi irrealizzabile o, comunque, incompiuto. Da un lato, i cambiamenti climatici, la fine del petrolio a prezzi contenuti, l’esaurimento delle risorse naturali, l’inquinamento che mette in pericolo l’intera biosfera; dall’altro, la malattia, il dolore nostro o di chi ci sta vicino, l’improvviso e inaccettabile morire: nei grandi come nei piccoli numeri, la finitezza della condizione umana è destinata a riproporsi come la sola verità incontrovertibile. Il limite che credevamo di esserci lasciati alle spalle, torna, al pari di un sogno, a visitarci, a sorprenderci, a interrogarci.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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