Tutto il mondo in un bar, campionario di esistenze

Luigi Oliveto

02/11/2023

Fino a qualche decennio fa, se volevi capire il genere umano avevi due possibilità: leggere Shakespeare o frequentare un bar. I più propendevano per la seconda. I bar erano laboratori di umanità. Lì avveniva l’elaborazione dell’ovvio, lì si offriva conforto, argomenti, sbruffonate per tirare a campare. In quegli ambienti rigorosamente male areati ristagnava la condensa di espressi e cappuccini, terribili dopobarba, pretenziosi parfum pur femme, toast bruciacchiati, esalazioni di stravecchi, amarini e aborrite docce. Ma soprattutto ti restava addosso il nugolo di banalità e senso comune cui aveva dato fiato la porzione di umani lì raccolta e che, in definitiva, rassicurava tutti, anche chi dalla vita avrebbe voluto qualcosa di meglio. A riproporre un siffatto clima è il romanzo “Il bar senza nome” di Robert Seethaler, tradotto da Roberta Scarabelli e pubblicato da Neri Pozza. Protagonista è un trentenne, Robert Simon, che nella Vienna del 1966 realizza un sogno: gestire un bar tutto suo. Robert è quello che può dirsi una brava persona. Orfano di guerra, è cresciuto nell’istituto delle suore della Carità, poi ha alloggiato in un ostello della Volkshilfe, fino a quando ha trovato una stanza ammobiliata in casa di una vedova di guerra, grazie a un annuncio che diceva: “Offresi alloggio pulito a persone rispettabili temporaneo o permanente. Astenersi delinquenti, bevitori, donne. Possibilità di trasferimento residenza. Orari fissi di riposo. Biancheria, stufa e radio disponibili, colazione su richiesta”. Su richiesta dei bottegai, Robert svolge lavoretti vari al mercato dei generi alimentari. Scarica merci, si adopera per commissioni, incombenze, piccoli interventi di manutenzione. Aveva fatto anche l’aiuto cameriere e il garzone nei locali all'aperto del Prater. Proprio allora, tra quelle lanterne colorate, gli si era accesa l’idea di diventare titolare di un bar. Ecco, ora il progetto tanto fantasticato può realizzarsi.
 
“Nella sua stanza dalla vedova di guerra, però, Robert Simon la notte si rigirava nel letto, agitato da un desiderio che si era acceso in lui un tempo sotto le lanterne colorate e che ora tornava a divampare, finché una mattina era saltato giù dal letto, e senza fare colazione e nemmeno passarsi le dita tra i capelli per pettinarsi, aveva percorso il breve tragitto fino a Haidgasse, era salito di corsa per i sei piani di scale fino alla mansarda di Kostja Vavrovsky e, ansimando e con il cuore che batteva all’impazzata, gli aveva chiesto di affittare il vecchio bar del mercato”. Trovano un accordo economico e così Robert realizza il suo sogno. Certo, niente a che vedere con i locali del Prater. “Il quartiere intorno al Karmelitermarkt era uno dei più poveri e sporchi di Vienna; molte finestre delle cantine erano ancora coperte dalla polvere delle macerie lasciate dalla guerra, che costituivano le fondamenta dei nuovi edifici popolari costruiti dal comune e dei condomini per gli operai”. Ma Robert, gran lavoratore, rende il suo locale più che dignitoso, e fin dal primo giorno d’apertura fa buoni numeri di clienti. Dopo qualche ipotesi non trova un nome soddisfacente da iscrivere sull’insegna. Sarà dunque un bar senza nome, ma non per questo anonimo. Ben presto il locale conquista un variegato pubblico di habitués. Ciascuno con le proprie storie, sentimenti, caratteri, esistenze più o meno sghimbesce. Robert serve loro bevande, cibo e un attracco alla solitudine. Ecco così inscenarsi un campionario di esistenze che, in scala, può rappresentare l’umanità intera. Questo è, infatti, l’intento riuscito dell’autore, che in piena empatia con i suoi personaggi, ha prodotto un toccante apologo sulla fatica del vivere e su come essa cerchi ovunque prossimità. Fosse anche nel minuscolo ecumene che, giorno dopo giorno, si autoconvoca tra il bancone e i tavoli di un bar.
 
***
 
Robert Simon aprì il suo bar a mezzogiorno in punto. Il primo cliente arrivò appena dieci minuti dopo. Simon lo conosceva di vista: era un frutticoltore della Wachau che in alcuni giorni affittava uno spazio tra le bancarelle del lato est per vendere il suo cesto di albicocche. Si sedette a un tavolino all’aperto e fissò cupo il marciapiede.
«Cosa le posso portare?» chiese Simon, che si era messo il grembiule e aveva infilato una matita dietro l’orecchio.
Il frutticoltore lo guardò stupito. «Io ti conosco» disse. «Lavori al mercato».
«Non più» rispose Simon.
«Cosa c’è?» chiese il frutticoltore.
«Caffè. Gassosa. Soda al lampone, birra e vino di Stammersdorf e Gumpoldskirchen, rosso e bianco. Da mangiare, pane allo strutto con o senza cipolle, cetrioli freschi e bastoncini salati».
«Non è molto».
«È il primo giorno. E poi questo è un bar, non un ristorante».
«Prendo un Gumpoldskirchen. Bianco e in un bicchiere con il manico» disse il frutticoltore.
I clienti successivi arrivarono intorno alle dodici e mezzo. Erano due vecchie conoscenze del Prater, entrambi pallidi e gonfi per via della loro passione per la birra boema. Ne ordinarono due bicchieri e si sedettero a un tavolo sotto la finestra, dove cominciarono a confabulare tra loro con le teste vicine. Di lì a poco apparve una squadra di stradini. Avevano gettato catrame per tutta la mattina e lisciato il rivestimento fumante con lunghi attrezzi spandiasfalto, i volti protetti da panni umidi. Ordinarono acqua e birra e mangiarono le patate che avevano portato con sé, dopo averle cotte nel catrame bollente avvolte nella carta stagnola. Un vicino del condominio accanto chiese un caffè macchiato. Due anziane signore in abiti estivi e cappelli a fiori occuparono il tavolo vicino al frutticoltore e ordinarono vino rosso e soda al limone.
Arrivavano sempre più clienti: gente del quartiere, turnisti, impiegati in maniche di camicia, le ragazze della fabbrica di filati di Schottenau. Simon girava, prendeva ordinazioni, spillava birra, riempiva bicchieri, li sciacquava con acqua fredda, li asciugava con uno strofinaccio e con un altro puliva i tavoli. Con una pinza di legno pescava i cetriolini in salamoia dal barattolo e con una spatolina stretta spalmava lo strutto sul pane che aveva ordinato al fornaio del mercato e ritirato al mattino ancora caldo, avvolto in un panno bianco come un neonato.
Più tardi arrivarono i venditori del mercato. Si era sparsa la voce che il bar aveva riaperto ed erano curiosi. Occuparono i tavoli o si appoggiarono al bancone, dove lasciavano scorrere le mani sul legno levigato e osservavano Simon mentre spillava.
«Un boccale di birra! Per me un bicchiere di rosso! Tre bianchi! Due li offre la casa!»
Ci furono anche momenti tranquilli, quando la conversazione si smorzava e tutti si appoggiavano allo schienale come in un sospiro collettivo. Allora Simon si metteva dietro il bancone e teneva i bicchieri in controluce per verificarne la brillantezza, e quando si girava per posare un bicchiere sullo scaffale, si vedeva allo specchio con il grembiule, la matita dietro l’orecchio e un’espressione di leggera incredulità sul viso.
Alle sei arrivò il mastro macellaio. Si sedette, ordinò un ottavo di rosso e fece vagare lo sguardo per la stanza.
«Te l’ho detto» commentò. «Con o senza nome, va bene così com’è. E sarà sempre meglio, vedrai, Simon!»
 
[da Il bar senza nome di Robert Seethaler, traduzione di Roberta Scarabelli, Neri Pozza, 2023]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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