Tra le pagine dei libri di Laura Imai Messina soffia una brezza ristoratrice, l’afflato di una comunione con persone e cose; quelle che, se non fossero cercate, resterebbero a noi sconosciute. Anche nel suo nuovo romanzo, “Tutti gli indirizzi perduti”, spira quest’aura magica. A respirarla a pieni polmoni è la protagonista, Risa, che si reca ad Awashima (siamo in Giappone), piccola isola nel mare interno di Seto, ormai ridotta a centocinquanta abitanti, ma dove resiste un ufficio postale unico al mondo. È lì che vengono conservate tutte le lettere spedite ma non recapitate, perché hanno un destinatario, ma non il suo indirizzo. Lettere, dunque, consegnate alla deriva dei ricordi, di ciò che è andato perduto: persone, amori, oggetti cari, fugaci presenze. Messaggi che mai avranno una risposta, ma che, pur con questa consapevolezza, sono stati scritti, poiché “tutto il senso dello scrivere queste lettere è, precisamente, scriverle”. Averle pensate, curato la stesura, è comunque servito a consolare, forse a mettere ordine dentro sé stessi, a capire qualcosa di più della vita e del mondo. Ecco allora che “Awashima è l'indirizzo che ha preso in carica tutti gli indirizzi perduti della terra”. Risa ha deciso di raggiungere l’isola per un compito ben preciso: si è offerta di catalogare tutta la corrispondenza arrivata là in dieci anni. Una scelta dettata dai sentimenti. Innanzitutto per suo padre, postino per una vita, sempre attento a far sì che nessuna lettera andasse perduta, per una forma di dedizione agli altri, per rispetto nei confronti di chi quella lettera aveva scritto e di chi ora la stava aspettando. Non meno importante risulta, nella scelta di Risa, l’eredità lasciatale da sua madre, donna spesso smarrita nei propri pensieri, ma capace di parole magiche e di saper vedere ciò che agli altri restava invisibile. È da lei che ha imparato a leggere la poesia delle cose e l’interesse verso ciò che è estraneo, perché “è dall'incontro con gli sconosciuti che può nascere lo straordinario”. Infine c’è dentro Risa un dubbio o forse un auspicio: in quel deposito di parole che declinano in tanti modi amore, nostalgia, rammarico, perdono, gratitudine, pianto, felicità..., potrebbero trovarsi alcune indirizzate a lei. Dicevamo all’inizio come le pagine di Laura Imai Messina siano attraversate da qualcosa di fatato: a prestare bene l’orecchio, vi vibra il diapason che ci accorda sull’unisono dei sentimenti universali, e che fa sentire nel giusto della vita.
***
Bastava un segno, un solo pretesto perché lo straordinario avesse luogo.
Risa sentiva che accadeva soprattutto lì dove l’ambiente era estraneo, ed estranei erano anche tutti quelli con cui interagiva. Fin da bambina, le era stato chiaro che le magie più strabilianti avvengono proprio tra sconosciuti e funzionano tanto più essi rimangono tali.
Risa si avvicinò al finestrino e vide il Mare interno di Seto distendersi molto oltre il suo sguardo. L’aria che fuoriusciva dal ventilatore appeso in alto le colpiva a ondate la fronte, buttandole indietro i capelli. La valigia era incastrata nello spazio tra lo schienale davanti e il sedile, e c’erano sconosciuti ovunque; si trattava di poche persone, ma tutte connesse da quel filo robusto che era per Risa il non saperne niente. Solo un paio di ragazze parevano turiste, gli altri erano passeggeri abituali, senza bagaglio e con l’aria di conoscere esattamente la lunghezza del viaggio. A ogni alba salivano probabilmente sulla nave per recarsi a scuola o al lavoro e, dopo il tramonto, replicavano la traversata all’inverso.
«Awashima, siamo in arrivo all’isola di Awashima. Preghiamo i signori viaggiatori di non dimenticare a bordo i bagagli e attendere l’attracco prima di alzarsi dai sedili».
Risa era uscita di casa all’alba e, nella calca di un martedì mattina, era salita sul treno per Yokohama. Aveva preso il volo delle sette e trenta dall’aeroporto di Haneda e, al decollo, aveva guardato con insistenza le case, gli uffici, i parchi, i cortili delle scuole, le giostre, gli stadi schiacciarsi a poco a poco gli uni contro gli altri, fino a che non erano del tutto spariti gli spazi intermedi. Era lì che Tōkyō, con le sue strade prive di un nome, i numeri dei civici che comparivano e svanivano a ogni demolizione, il ricambio straordinario di indirizzi, le case abbandonate e le continue variazioni di domicilio, diveniva una poltiglia senza confine.
Il volo per Takamatsu era stato breve, tanto più che al decollo il sonno l’aveva colta quasi immediatamente. Aveva riaperto gli occhi quando era stato annunciato l’atterraggio e, di nuovo, aveva addensato tutta l’attenzione sul paesaggio. D’improvviso si era aperto il mare e le centinaia di isole sparpagliate sul Mare interno di Seto l’avevano riportata ai nove anni, a quel piatto voluminoso di ceramica verde che le era scivolato di mano per spezzarsi in mille frammenti sul pavimento; ricordava il sussulto della madre e il suo sorriso divaricato, mentre lei si chinava furiosamente a raccogliere tutto, prima che la donna potesse calpestare le schegge e tagliarsi nelle sue giravolte di gioia e di canto.
Chissà cosa intonava in quei giorni, si era domandata Risa. Poi, frugando con gli occhi il paesaggio in cerca di un’isoletta a forma di elica, aveva sussurrato: − Quale sarà Awashima?
Aveva stabilito di arrivare presto per sfruttare parte della mattina, memorizzare il percorso dall’Ufficio postale alla deriva alla sua residenza, sistemare gli abiti nell’armadio, fare una lista di tutto il necessario per vivere lì un mese.
La casa che le avevano messo a disposizione era uno degli alloggi destinati agli artisti, in cui potevano trascorrere lunghi periodi per lavorare ai progetti da esporre sull’isola o alla Triennale di Setouchi, la manifestazione d’arte più importante della zona. Il complesso principale sorgeva nella sede della vecchia scuola media mentre la casetta di pochi tatami che le era stata assegnata restava distante dal porticciolo. Si trovava alla fine dell’unica strada che correva lungo l’isola e che da lì si arrampicava sulla montagna.
Proprio durante quei due mesi a cavallo tra l’inverno e la primavera, la casetta era rimasta sfitta, e l’insistenza di Risa, il nome dell’università per cui lavorava e qualcosa che lei attribuiva alla fortuna avevano convinto l’amministrazione locale a cedergliela.
«Awashima, siamo in arrivo all’isola di Awashima. Preghiamo i signori viaggiatori di non dimenticare a bordo i bagagli e attendere l’attracco prima di alzarsi dai sedili».
La nave prese a virare verso il porticciolo e si piegò lentamente su un lato per completare la manovra. Le due turiste si alzarono emozionate e gli altri si chiusero il cappotto, infilarono la borsa a tracolla, lo zaino in spalla e staccarono gli occhi dagli schermi del traghetto che trasmettevano un programma di intrattenimento, di quelli pieni di volti esagerati e sottotitoli in caratteri spessi.
− Le serve una mano con la valigia?
L’uomo che le si rivolgeva, poco più grande di lei, doveva averla vista trafficare per liberarla. Istintivamente, Risa si chiese dove fosse stato seduto tutto quel tempo e se facesse parte dell’equipaggio, perché tra i passeggeri non lo aveva notato.
− No, grazie, − rispose rapida, riuscendo in quel momento a disincagliare dal sedile il bagaglio.
Lui fece un cenno di assenso e spinse con la spalla la porta che conduceva all’aperto. Teneva tra le mani buste stipate di alimenti: da una fuoriusciva un cipollotto negi, da un’altra un casco di banane.
Quando Risa uscì a sua volta all’esterno, fu investita dall’aria fredda dell’oceano che, solo in quel tratto, veniva chiamato «mare».
«Finalmente siete a casa», pensò, e istintivamente accarezzò la sacca piena di buste premuta sul fianco. Ognuna di quelle lettere clandestine aveva un indirizzo diverso, una grafia irregolare che Risa, benché non fosse né il destinatario né il mittente, conosceva a memoria.
Scorse Awashima dalla prua della nave e qualcosa la avvertì che la sua vita, non nella ragnatela concreta dei giorni, ma nella maniera di sentirla e immaginarla di lì in poi, sarebbe potuta cambiare. Nulla effettivamente glielo anticipava, eppure la particolare forma dell’isola che, da quella prospettiva, appariva lunghissima, la silhouette del porticciolo coperto da un ampio tetto di tela bianca e, dietro, l’ombra verde smeraldo della montagna, le si presentarono come un’evidenza. Fu allora che, nella mente di Risa, quel paesaggio si sovrappose in un istante alle decine di fotografie e sequenze video collezionate in preparazione del viaggio e, senza eccezione, le bruciò tutte.
− Fate attenzione, arretrate per favore, − ordinarono con fermezza gli uomini dell’equipaggio maneggiando il carrello.
Sulla banchina dell’ormeggio, un piccolo uomo teneva tra le mani un grande cartello con su scritto il suo nome: Dott.ssa Katō Risa. Lo alzò sopra la testa e la guardò, individuandola tra i volti raccoltisi sulla prua. Lei gli sorrise di rimando, ma piano, perché era incapace di abbandono.
I marinai tirarono le cime e si salutarono con discorsi che a Risa suonarono così quotidiani, come se si fossero interrotti solo qualche ora prima, nel medesimo punto. Il ponte fu infine fissato all’attracco e i passeggeri presero a scendere, tenendosi stretti alle corde.
− Benvenuta ad Awashima, Katō-sensei, − esclamò l’uomo, andando incontro a Risa con il cartello sottobraccio.
[da Tutti gli indirizzi perduti di Laura Imai Messina, Einaudi, 2024]
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