Tuamore. Se la perdita della madre lascia un vuoto incolmabile

Luigi Oliveto

28/04/2022

Non siamo noi che elaboriamo i lutti, ma sono loro a imporci la consapevolezza della perdita; e, dunque, a ingiungerci di governarla come si può. La letteratura – che poi costituisce uno di questi ‘come si può’ – è ricca di esempi. Si pensi al tema della perdita della madre. Vengono alla mente i versi di Mario Luzi che nello struggente rimpianto della mamma Margherita immagina che lei, “di là dalla frontiera d’ombra”, possa tornare nella loro casa almeno per una fuggevole visita, aggirarsi come timida ospite in quelle stanze che erano state le sue: “Passa sotto la nostra casa qualche volta, / volgi un pensiero al tempo ch’eravamo ancora tutti.” O l’esorcizzante “Supplica a mia madre” di Pier Paolo Pasolini: “Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.” E ancora Ferdinando Camon, che con “Un altare per la madre” le consentirà di "smettere di morire", perché “la madre era morta, ma questo non era possibile”. Trova, quindi, nobili precedenti il memoir di Crocifisso Dentello “Tuamore” (La nave di Teseo) in ricordo della madre morta di cancro a 62 anni. Una ininterrotta dichiarazione di affetto (“Nessun altro essere umano potrà mai amarmi come mi hai amato tu”) che giunge a trasformare la terribile parola (tumore) in “Tuamore”. La malattia ha purtroppo sconfitto Melina (guai a chiamarla Carmela, nome che detestava), una donna forte venuta dal Sud, piena di vita, madre che ha cresciuto con determinazione tre figli. Appassionata di calcio, cinema, telenovelas, cruciverba; avvezza da sempre a ribaltare il sacrificio in brio, nemmeno il calvario delle terapie aveva spento la sua vitalità. Finché l’inesorabile è accaduto. Sconfitta la madre, e con lei il figlio. Il tempo non sembra ricucire lo strappo. Al contrario l’assenza si impossessa degli oggetti, dei ricordi, della quotidianità, del presente cui manca sempre qualcosa. Allora per il figlio scrittore non resta che svolgere il filo delle parole, così che mai termini il dialogo, la corrispondenza degli affetti. Così che lui mai finisca di essere figlio.
 
***
 
[…]
Avevi vent’anni quando mi hai messo al mondo. Ero già al tuo matrimonio, a tirarti calci in pancia. Non ti ho forse sposato anch’io, non sono forse salito sull’altare con te in un patto d’amore finché morte non ci ha separato?
Sono un vedovo, proprio come papà, perché sei stata l’unica donna della mia vita. Tra una madre e un figlio resistono sempre tabù inviolabili. Noi abbiamo spazzato via anche quelli. Fiaccata dalla malattia, mi è capitato di strofinarti con la spugna sotto il getto della doccia. Tu eri mortificata, tenevi lo sguardo basso: Dai, svelto.
Sfiorare la tua intimità è stato come sublimare l’istante in cui mi hai partorito.
Ci sono state e ci sono milioni di esistenze scaraventate sulla Terra solo per consumarsi nel dolore. Non sono ingenuo, non ti elevo a paradigma dell’infelicità. Hai avuto una vita discreta, hai potuto mettere sempre qualcosa sotto i denti, ti sei sposata, hai avuto tre figli e quattro nipoti. Hai affrontato i tuoi giorni con il sorriso, spargendo buonumore a ogni tuo passo. Ma sei stata come quei comici che in scena strappano risate e dietro le quinte si macerano nella malinconia. Voglio dire che sei sempre rimasta sotto l’asticella delle tue aspirazioni e dunque sei stata per molti versi scontenta e delusa.
Sei cresciuta in una famiglia operaia che non ti ha consentito di mettere un piede fuori dal cerchio, di tentare un destino diverso. Ti sei sposata per amore ma il matrimonio è stato anche un inferno morbido di incomprensioni e malumori, i tuoi tre figli non hanno mai raggiunto una stabilità che potesse farti dormire sonni tranquilli, i tuoi quattro nipoti non te li sei potuti godere fino in fondo perché spesso lontani.
Cribbio, mi sono ridotta a fare la cameriera per voialtri, ti lamentavi certe sere, ma ero bella come Claudia Cardinale, potevo tentare una carriera di lustrini e paillettes.
Tutti i tuoi sessantadue anni sono stati funestati da rovesci economici che ti hanno costretta talvolta a brucianti umiliazioni. Il cancro, come una beffa finale, ti ha mangiato l’agio del corpo e trasformato la quotidianità in un calvario.
Sarà stato due, tre mesi prima che morissi. È una sera di pioggia battente, l’eco dei tuoni rincorre un vento che sembra sradicare le finestre.
Forse insegui un presentimento, forse vuoi esorcizzare una paura che non riesci a confessare. Mi dici, con affettuoso rammarico: Non sono eterna, tocca anche a me andarmene.
Resto così interdetto che non ho la prontezza di sdrammatizzare.
Sei sintonizzata su C’è posta per te. Maria De Filippi prova a far riconciliare un padre e una figlia convincendo quest’ultima ad aprire la busta.
Io sfoglio un libro, seduto di fianco a te al tavolo della sala. Papà è chiuso in cucina, in mezzo a una nuvola di fumo a smadonnare contro non so quale politico. Ci arriva l’eco delle sue intemerate: Questo grandissimo cornuto, questo figlio di grandissima buttana.
Ti accorgi che di tanto in tanto sollevo lo sguardo e ti spio di sottecchi. Forse i miei occhi tradiscono un’involontaria compassione.
Ti stringi nelle spalle: Eh vabbè, tocca fare testamento.
Melina, ti aspettano ancora tanti anni di guai!, ti rispondo con una detestabile voce in falsetto. Poi ti abbraccio, uno di quei miei abbracci che hai sempre finto di disdegnare. Mollami, mi manca l’aria!, sbotti, sempre attaccato come una cozza, eccheccavolo.
Quando la sera rincaso, nell’attraversare il cortile interno, mi atterrisce sempre quel rettangolo scuro al terzo piano del nostro stabile. Fintanto che c’eri tu la finestra della sala non mancava di rimanere illuminata fino a tarda ora.
[…]
Tutti coloro che mi ronzano intorno si aspettano reazioni sobrie quando provano a sondare il mio stato d’animo. Si attengono a un copione di domande generiche. Le risposte devono essere altrettanto sfumate. L’importante è aggirare la voragine, raccolti in una reciproca simulazione.
Bisogna andare avanti, è il mantra che passa di bocca in bocca.
Ma io voglio tornare indietro, mastico tra i denti come un bambino ottuso.
Ho l’impressione che il mio stesso lutto non mi appartenga, che sia agli occhi degli altri una zattera anonima che fluttua su un fiume, destinata come milioni di altre a raggiungere la sponda opposta. Per quanto mi affanni a renderlo unico, a imprimergli una griffe, il resto del mondo non vede che la copia di una copia.
Fatico a tollerare coloro che tentano di distogliermi dalla mia sofferenza. Mi irritano quei sorrisi miti, quell’aria di mistica compunzione, quelle parole sterilizzate.
 
[da Tuamore di Crocifisso Dentello, La nave di Teseo, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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