In molti ricorderanno la canzone “Radici” pubblicata da Francesco Guccini in uno dei suoi primi dischi. Vi si parla di una casa sul confine della sera e dei ricordi. La casa delle proprie radici in cui cercare sé stessi “se vuoi capire l’anima che hai”. Da là – recita ancora il testo – sono scivolati via gli anni, volti, esistenze; e l’autore si chiede se le pietre riconoscano in lui qualcosa dei suoi avi. La pietra però è muta, non emette suono “o parla come il mondo e come il sole, / parole troppo grandi per un uomo”. Ma i legami, i riti, i miti del passato li senti comunque dentro “come mani”. Sono, appunto, le tue radici, che offrono, se non altro, il dono della saggezza “e proprio questa è forse la risposta”. Potremmo dire che questa canzone è diventata oggi un libro. Un libro di Francesco Guccini – ormai da anni scrittore – intitolato “Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto”. Il paese cui si allude è la sua Pàvana, sull’appennino tosco-emiliano. Un luogo sempre più spopolato, dove i camini, di anno in anno, hanno smesso di fumare, i suoni della campagna, degli artigiani, di una comunità saggia e laboriosa si sono spenti. Allora, tralummescuro, cioè quando a sera la luce affievolisce ma non è ancora buio, torna, struggente, il ricordo di persone, voci, cose, risate, amori. Tecnicamente il libro di Guccini non può dirsi un romanzo, ma lo è per come sappia raccontare un piccolo sperduto universo di vita e sentimenti. Lo fa alternando lingua italiana e dialetto, che già in sé esprime un mondo, una sagacia, un’identità (tranquilli, laddove occorra, a piè di pagina troviamo la traduzione). Si ha così una intensa ‘ballata’ che trasuda di poesia, rimpianto, rassegnazione. Perché “tralummescuro è di un mondo, di una civiltà che non esistono più. Di gente che non c’è più. Verodìo.”
***
Mia cómme d’inverno, quando Orion dal cielo declinando imperversa sovra la terra otenebrata, quando verso le quattro, quattro e mezza del pomeriggio, alé, di pacca, come una ghigliottina che scende rapida e implacabile, come una mannaia brandeggiata da un boia senza pietà, ti cala addosso lo scuro, il buio de la notte, e devi impiare la lumme elettrica, se ci vuoi vedere qualcosa, e così è per giorni e mesi, fino al ventuno di dicembre, solstizio d’inverno, quando i giorni cominciano ad allungarsi, poco ma si alungano (per Natalino un passo d’agnelino, per la Bufagn-gna un passo ed cagn-gna), che non sarà un granché ma piutosto che gnénte è mò meglio piutosto, e cominci speranzoso a spetare la primavera. No d’inverno. Vuoi dire d’estate, anche se col ventuno di giugn-gno, solstizio d’estate, le giornate tornano indrédo, ahinoi, ma sono ancora lunghe, hai voglia se sono ancora lunghe...
Alóra pensi e t’arcòrdi di quando, bambino, il giorno cominciava a declinare, doppo una mattinata e un pomeriggio trascorsi su e giù per il fiumme in piacevolissime nefandezze infantili, i piedi già lavati da brusche mani di avole nell’acqua del botàccio (ti avevano costretto, a lavarli, dalla polvere e dal sudicio di questo mondo, perché andavi a piedi nudi, dimentichi che te li avevano di già lavati il giorno prima, e tu pensavi che quei continui lavacri fossero un’inutile ripetizione, un accanimento terapeutico). Ti sedevi contr’al muro fuori dall’usc-scio di casa nel tepore della giornata estiva che scivolava nella sera con in mano o il Corrierino o Il Vittorioso o Tex o Sciuscià o Il Piccolo Sceriffo, o qualunque altro fumetto o libro su cui eri riuscito a mettere le mani. Sentivi, poco lontano, gli ultimi paesani di ritorno dai campetti di là da l’acqua che si motteggiavano con tuo zio Nerìco che, la zappa in mano, rincalzava i fagioli nell’orto della Gigia: “Avanti pure, Merìgo”, e la consueta risposta: “Avanti e vita lesta, manghiar póco e lavorar da bestia”, perché era ormai tralummescuro e dovevano tornare su, in paese, a manghiare pur anco loro.
Poi, dolce, calava il buio, ma non subito, perché l’imbrunire era lento, piano la linea d’ombra saliva su verso il crinale di là da l’acqua. Si mangiava anche noi, nell’androne, perché d’estate si mangiava nell’altra stànzia, no in cucina dove i fuochi per far da mangiare avevano alzato il caldo. E a poco a poco veniva il buio, ma lento, dolce, che quasi non te ne accorgevi.
Quant’era durato quel tralummescuro? Ore. E c’era un silenzio datorno! Sentivi anche il fiume ruiare, ma lene, tranquillo, e le voci di casa che parlottavano del giorno e si preparavano per la notte.
“Tralummescuro” era dialetto, quando tutti parlavano dialetto, e lo traduci con “all’imbrunire”, ma senti che non è la stessa cosa. Ti viene in mente il profeta Isaia, ma all’incontrario, perché egli parla della notte che sta per farsi giorno. Tralummescuro è la luce, il chiarore (la lumme) che sta per diventare buio, la notte (lo scuro) e di notte, alora, era scuro davera. Adessa non passa più nesuno e anche il Mulino è privo di voci; anche di là da l’acqua non ci va più nessuno, a legare le viti, a zapetare un campetto, a rubare le ciliege, e la mulattiera è mezzo crollata.
Tralummescuro è di un mondo, di una civiltà che non esistono più. Di gente che non c’è più. Verodìo.
[…]
Arie così terse, pulite, limpide che anche óggi, che non c’è qui lo smog de le cità, fatichi a trovare. Te le ricordi come in una foto, un flash di memoria, guardavi la murèlla di fronte e il grande tiglio e il còrniolo sopra la mulattiera che porta in paese, fiancheggiata da una tenace cèdda, curata ogni primavera dopo i danni di un inverno più o meno stricante, e la caṡetta del pozzo, là, di fianco a casa, dove si apre la strada, ora asfaltata (pensa te) che porta in Centrale.
Si distaccano nitide, quelle immagini, vivide nel ricordo, come di oggetti balzanti fuori da una cartolina, un’immagine che si distende e si apre come un diorama della memoria.
Ora, se ti avvii verso in Centrale, lasciando dietro il botàccio orfano d’acqua, l’invaso pieno di erba e i muri un poco scrostati, non più manotenuti, verso mezodì (e non si mangia più, di mezodì) verso il Pozzone delle Scalette, verso il fosso di Maiolo che si butta nel fiume, là dove nesciva l’acqua per gettarsi ne la gora, trovi una sbarra che taglia la strada. Una sbarra? Per sbarare chi? Te, rè del fiume e della strada e dei boschi atórno?
La scavalchi e vai in là, e guardi il fiume di sotta e la grande pietra cementata, residuo della Centrale balzata, scaraventata in aria dall’esplosione tognina; e la scolina colma di acquaséddoli come piccoli abeti idrofili, e quando stagione di farfanàcci e origani ed epilobi parviflorum, fino a vedere la briglia, là dove scendevi al fiume, e la larga iara atorno, vicino al muraglione della gora d’uscita dell’acqua della Centrale.
Ti prende un po’ di nostalgia, nel vedere quella iara, dove c’era una piccola cava di terra gréca, atta a fabbricare vasetti e pipette, e i fuochi che facevate, per cuocere i manufatti e lessare patate rubate, e i bagni nella pozza sott’a la briglia, e le voci dei ragazzi d’allora, molti dei quali, óggi, a far tèra castagnina, su in Vignale, che sarebbe il camposanto. Solo silenzio, il rumore de l’acqua che scorre e nessuno.
Nessuno e niente, perché han tirato via anche i muri che eran rimasti, della gloriosa Centrale che dava la luce a le Ferovie dello Stato, la Forza Elettrica alla Poretana; un tubo enorme colorato di verde sortiva dalla Diga e percorreva come un enorme lombrigo la breve piana e si immergeva in insondabili abissi nelle viscere della Centrale, bella, liberty, pulita, piena di strani aggeggi elettrici (manometri? voltometri?), di sopra, e di turbine immense e potenti (le ruote Pèlton?), di sotto, che l’acqua faceva girare, e producevano la magia de l’elettricità. Come, un mistero, ma la producevano.
Ora niente, nada, neanche i muri della facciata e laterali, rimasti in piedi dopo l’esplosione crucca di quell’estate del ’44, quando l’aria si fermò un istante per poi esplodere in mille frazioni di fiamme e fumo, e infine il rombo che si spandeva come una macchia d’olio sui monti attorno, terrorizzando cani e gatti e uccelli che si alzarono in un volo disperato.
Più niente, neanche traccia del Mulino di Millo che vide il lavoro di tuo bisnonno munaro, neanche una rotonda macina di scarto appoggiata a un muro, proprio più niente. O forse una ci sarà, ma sono cinque sei quintali di sasso (chi la sposta?) ed è nascosta, mimetizzata da qualche pianta rampicante che la cela agli occhi umani.
Solo un figo salvadgo (ma si innestano i fighi?) e un paio di alberi di culóre, i frutti delle quali raramente hai mangiato perché anzitempo li trovavi spaccati a terra (gli scoiattoli) o aperti con un buchino astuto e vuoti drento (le goṡgétte).
Ci sono poi quelle due o tre baracchette misteriose in mattoni, sopravissute e sigillate anche allora. Cosa ci sarà drento, da rinchiuderle così? Latte di olio industriale (per ungere cosa?), stracci unti, lo scheletro rinsecchito di un allora operaio della Centrale, lì rimasto chiuso e dimenticato?
Avanti ancora, fiancheggi quel paio di cedri del Libano (ma allora erano pini, come quegli altri, tutti pini, sapevi bén ’na semplice che piante fossero), sotto ai quali il babbo del tuo amico Casari aveva messo dei fragoloni che raramente mangiò, perché tutte le volte che passavi e ce n’era uno, non dico maturo ma appena roseo (e come avrebbero fatto a maturare là sotta a baṡgìo dio solo lo sa), te ne cibavi golosamente; e poco dopo ti appariva la breve piana e, in fondo, la magia della grande Diga.
Odìo, grande. Ce n’è, al mondo, di più grandi, lo sai, ne avranno fatte a decine di più grandi, ma allora ti sembrava immensa, un tempio azteco di cimento armato piazato lì a separare e unire le due sponde, di qua e di là da l’acqua, con sopra la strada che va in Emilia, e dopo un po’ torna in Toscana, poi ancora in Emilia, definitivamente, fino al trivio di Ca’ del Cucco, là dove, in fondo, si apre il grande lago fratello maggiore del tuo e la Grande Diga, quella più grande ancora della tua.
La Diga, inaugurata, nella foto, da Sua Maestà rè Vittorio Emanuele terzo, un piccolo uomo in mezzo a giganti ingegneri e manovali e òpre varie. Un tempo libera, gli archi rincorrentisi l’un l’altro, con scalette di fèro per raggiungerli, cunicoli entro i quali era d’uopo rimpiattarsi con le morosine d’allora, strapiombi verticali inimmaginabili, monumento di civiltà passate e sconosciute, altro che Maya o Egizi; gli archi sporgenti in fuori e sotto agli archi un fresco incredibile, stillante acqua dalle pareti, terreno umido e muschioso. Allora. Adessa è rinserrata da una rete metallica, che nessuno osi avvicinarsi, e c’è un tubicino che esce di lato (pallido figlio della grande condotta d’allora) e corre giù per un po’ e finisce in una centralina che, dicano, funziona. Un po’ di elettricità dovrebbe produrla.
Attorno, se non per il leggero scroscio dell’acqua che esce dalla Galleria dello Sfioratóre e si getta nel Pozzone della Centrale (della ex, Centrale) ora non più così lugubre e pauroso come un tempo, tutt’attorno non una voce. Non un clacson di càmmio sulla statale, non il motore di macchina che passa sulla Diga.
Silenzio, come per rispetto a quello che è stato, e non è più, e non sarà più, come quando d’inverno nevava e la coltre bianca copriva tutto atorno, i boschi, i campi, i tetti delle case, e c’era quella quiete irreale e tutto bianco attorno, e uomini e bestie si rintanavano in casa ad aspettare il disgelo. Silenzio, perché non c’è più nessuno lungo il fiume. Solo due presenze.
Franco che d’estate, ’gni tanto, ci andava, a bagnarsi i piedi nell’acqua del suo Rio delle Amazzoni, del suo Nilo, del suo Gange, artornava a infilarci i piedi drento, alla Sacra Acqua, come in un bagno purificatore, a godersi il fresco sott’a ’na vética gigante. Si portava dietro una nipote, perché impari la strada del fiume. Non ci andava no a piedi, come una volta, ci andava in macchina ma ci andava, e non so a cosa pensasse: ai tempi andati, alla giovinezza passata, a tutto il tempo volato via e lasciato dietro le spalle. O forse no, forse si appagava di quel momento, dell’acqua mormorina che gli scorreva sotto, della quiete eterna del fiume d’estate.
[da Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto di Francesco Guccini, Giunti, 2019]
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